Sono fresco reduce da una divertentissima giornata organizzata con un gruppo di amici nordici, radunatisi in Romagna per approfondire il tema “fiano irpino”. Come “materiale didattico” ho preparato una trentina di bottiglie, divise in varie batterie tematiche con piccole orizzontali, verticali e diagonali, giusto per suggerire un’idea almeno sommaria di quanto possa essere ampio l’argomento, da un punto vista stilistico, territoriale e temporale. Le abbiamo assaggiate alla cieca, un po’ per giocare come al solito con ipotesi e sintesi non condizionate dall’etichetta, un po’ per verificare se gli spunti didattici che avevo in mente per ciascuna serie si confermassero nella percezione e nella lettura dei miei compagni di tavola.
Dei singoli vini, quelli che hanno entusiasmato e quelli che hanno convinto di meno, vi racconterà quando avrà un attimo di tempo uno dei partecipanti alla “fianata”, come è stata subito ribattezzata. Io ci tenevo, invece, a porre qui l’accento su un’altra questione che è emersa durante la degustazione, che mi sembra più importante delle consuete note e classifiche di gradimento.
Dopo le prime batterie “tecniche” introduttive, ci siamo fermati per un veloce sopralluogo virtuale sulle varie zone in cui il vitigno irpino è protagonista. Seguendo la divisione già proposta nello Speciale pubblicato su Enogea 53, ci siamo soffermati sui caratteri pedoclimatici, geologici ed agronomici delle diverse macro-aree della denominazione Fiano di Avellino. Abbiamo passato in rassegna i principali cru, le località, i toponimi, i vignaioli, provando a delineare dei profili espressivi riconducibili ai vari pendii, perlomeno per grandi linee. Nelle serie successive ho chiesto agli amici di ipotizzare a bottiglia coperta la provenienza dei Fiano che assaggiavamo sulla base di questo breve excursus teorico. Ebbene, non ne hanno praticamente sbagliato uno. Ma non solo: sono rimasto impressionato dalla velocità con cui associavano a Lapio, Montefredane, Summonte e compagnia vini che molti di loro assaggiavano per la prima volta.
Considerando che il “docente” era quello che era, i casi sono due: o i miei sodali sono tutti dei fenomeni della degustazione oppure c’è una coerenza espressiva che si manifesta concretamente in questi vini, ben oltre le chiacchiere teoriche. Ne ero già convinto, naturalmente, ma la prova è stata ugualmente confortante. Quando si hanno tante occasioni di assaggiare gli stessi vini, se non altro per vicinanza geografica, c’è sempre il rischio di alimentare un circolo vizioso di autoconvinzioni che poi si sciolgono come neve al sole al primo confronto “esterno”. Una consolazione presto spazzata via da una domanda corale dei miei compagni di tavola che mi ha in qualche modo gelato:
«Scusa Paolo, dopo che abbiamo scoperto le batterie tu ci hai riepilogato la collocazione delle vigne che sono state utilizzate per produrre i vini che abbiamo assaggiato, ok. Ma se stappiamo queste bottiglie a casa nostra senza informazioni preliminari sul produttore e le uve, come facciamo a sapere la zona di provenienza e quindi il tipo di Fiano che ci troveremo nel bicchiere? C’è un’indicazione sull’etichetta che può aiutarci da questo punto di vista?»
Sono rimasto circa tre minuti in silenzio a cercare una risposta, ma l’unica possibile era: «No, non c’è un modo rapido e immediato per avere informazioni di questo tipo». Nonostante la stragrande maggioranza dei Fiano in circolazione sia oggi effettivamente riconducibile ad aree circoscritte, se non addirittura veri e propri cru, al consumatore “normale” non è dato scegliere la declinazione che più gli aggrada, se non c’è un sommelier o un enotecaro preparato a portata di mano o se non ha parlato col produttore in occasione di qualche fiera. E non è un limite da poco per una denominazione che, non da oggi, dimostra di avere tutte le carte in regola per essere identificata come opzione di livello mondiale per chi cerca bianchi tesi, longevi e capaci di restituire le diverse variabili pedoclimatiche.
E’ il solito discorso: finché restiamo in un ambito strettamente locale, possiamo anche accontentarci del passaparola e dare per scontato che operatori ed acquirenti conoscano già le differenze tra i vari territori. Andava in scena l’edizione 2003 della rassegna enogastronomica Terra Mia di Atripalda (AV) quando con gli amici di sempre proponemmo la prima orizzontale guidata sui cru del Fiano e da allora è stato tutto un fiorire di degustazioni organizzate in Campania con lo scopo di far toccare con mano la dimensione plurale della Docg. Ma cosa accade quando allarghiamo il raggio d’azione e ci spostiamo in mercati lontani? Non si tratta di piccole sfumature per maniaci, ma di differenze che vanno spiegate se si vogliono evitare confusione e disorientamento. Mettiamoci nei panni di un bevitore di Sidney, Hong Kong, Parigi: un Fiano di Lapio e uno di Montefredane non sono meno diversi tra loro di quanto lo siano un Meursault e un Puligny-Montrachet, che per la legislazione francese sono a tutti gli effetti Appellation distinte. Al contrario di quello che tanti pensano, questa diversità è percepita come elemento ad alto valore aggiunto quando si ha a che fare con i grandi appassionati di vino del mondo. A patto che venga raccontata con chiarezza e trasparenza, senza costringere ad una sorta di caccia al tesoro informativa per ogni bottiglia aperta.
Non c’è un’unica strada possibile per ovviare a queste ed altre contraddizioni che tante volte si manifestano quando ci muoviamo nello sterminato serbatoio di condizioni, vitigni, variabili del vigneto campano. Ma si può e forse si deve cominciare a prendere atto del fatto che alcuni disciplinari sono ormai inadeguati per rispondere a tutta una serie di esigenze legate alla produzione, alla commercializzazione e al consumo del terzo millennio, specialmente nel caso di vini che non giocano la propria partita sulle grandi quantità e i prezzi bassi, ma sull’originalità e la forza della voce territoriale.
Come il Fiano di Avellino, appunto: quando fu istituita la Doc nel 1978 c’era prima di tutto l’esigenza di creare un parco vigne significativo per una varietà che, come ricordato in diverse sezioni del portale (link), aveva rischiato davvero di sparire completamente, non soltanto dalle campagne irpine. Fu naturale e giusto scegliere una strada “inclusiva”, dal nome scelto per la denominazione (Fiano di Avellino e non Fiano di Lapio come tanti avrebbero voluto), alla composizione dell’areale, che ammetteva una serie di comuni in cui fino a quel momento il vitigno non era praticamente mai stato coltivato ma potenzialmente in grado di svilupparsi da questo punto di vista. Fu parimenti sensato concentrare tutta l’attenzione, anche in termini di comunicazione e promozione, su un unico brand come Fiano di Avellino, senza ulteriori indicazioni: nella prima fase la stragrande maggioranza delle bottiglie presenti sul mercato erano realizzate con uve provenienti da varie zone (pensiamo ai “base” di Mastroberardino e, successivamente, di Feudi di San Gregorio), mentre i cru erano a tutti gli effetti delle eccezioni. Identico discorso per quel che riguarda i tempi minimi di affinamento: non aveva molto senso in quella finestra storica prevedere, ad esempio, una tipologia “Riserva”, dato che il grosso della produzione rivendicata attraverso la Doc Fiano di Avellino veniva commercializzata poche settimane dopo la vendemmia, in qualche caso addirittura entro la fine dell’anno in corso.
Furono scelte in qualche modo inevitabili, dunque, ma nel frattempo sono passati quasi 40 anni e lo scenario oggi è completamente differente, se non addirittura ribaltato. Come ricordato precedentemente, il gruppo maggioritario di etichette marchiate Fiano di Avellino può essere oggi collegato a macro-aree ben circoscritte ed è arrivato il momento che questa provenienza sia ben evidenziata, segnalata e garantita, anche per evitare abusi da parte di chi ha in qualche modo snasato che in un certo ambito può fare gioco rivendicare la come luogo d’origine comuni e colline percepite estremamente cool. Che sia un sistema di Sottozone, come quelle riconosciute ad esempio dalle Dop Sannio, Costa d’Amalfi o Penisola Sorrentina, giusto per restare in Campania, o che si ricorra alle Menzioni Geografiche Aggiuntive adottate – non senza controversie – in Langa, è ormai indifferibile un approfondimento territoriale della denominazione, perlomeno per quel che riguarda il legame con le aree più storiche e vocate. Varrebbe la pena di ripensare parallelamente anche al modo più efficace per suggerire al consumatore quali sono le tipologie adatte ad un consumo relativamente veloce e quelle da attendere con pazienza, soprattutto oggi che tanti sforzi da parte di aziende ed operatori vengono impiegati per far capire come il Fiano di Avellino sia nei fatti uno dei grandi bianchi europei da invecchiamento.
Se si coglie da qualche tempo una certa convergenza su queste idee, non è purtroppo chiaro chi debba farsi promotore dell’eventuale revisione e aggiornamento del disciplinare. In molti territori la risposta sarebbe possibile sarebbe una sola, immediata: il Consorzio di Tutela, inteso come luogo in cui viticoltori e imbottigliatori si prendono in prima persona la responsabilità di decidere le strategie più efficaci per valorizzare collettivamente il proprio lavoro, sotto tutti i punti di vista. In provincia di Avellino il Consorzio si è costituito formalmente nel 2003, ma finora non ha avuto, per varie ragioni, né la forza né le risorse per assumersi questo ruolo. Non è questo lo spazio, voglio essere molto chiaro, per discutere sul perché e sul per come dopo oltre dieci anni l’Irpinia non è riuscita ancora a dotarsi davvero di un organismo di filiera “autonomo”, attivo nella promozione come nei controlli. A prescindere dalle “colpe”, ammesso che siano attribuibili linearmente, per come la vedo io l’attuale situazione rappresenta una sconfitta e un limite per tutti i produttori della provincia di Avellino, nessuno escluso. C’è sempre un modo per andare oltre le divisioni e chi guarda da fuori non riesce a comprendere come sia possibile che un territorio vocato come quello irpino non abbia nei fatti uno strumento organizzativo quotidianamente visibile e a cui rivolgersi per ottenere informazioni, dati, numeri su denominazioni, aziende, prospettive di cambiamento.
Un’assenza che suona ancora più strana e incoerente in un momento come questo, in cui il mondo del vino irpino sembra rivendicare maggiore spazio e libertà d’azione, come è emerso ad esempio in occasione dell’ultimo Vinitaly, che ha visto per la prima volta i produttori della provincia di Avellino collocarsi per scelta in un padiglione fisicamente staccato da quello che ospitava le altre province campane. Per quanto si tratti solo di una fiera, non è da oggi che si segnala l’ambizione e la voglia da parte dei vigneron irpini di ottenere una riconoscibilità specifica del proprio comprensorio sui mercati nazionali ed internazionali, affrancandosi sempre di più dal tipo di comunicazione portata avanti a livello regionale.
Non sta a noi discutere se si tratta di un’ambizione legittima e percorribile, ma da qualsiasi punto la si guardi, gli elementi di contraddizione sono evidenti. Ci si può candidare a terroir leader senza avere alle spalle un Consorzio forte, che guidi le scelte strategiche nel breve e nel lungo periodo? In attesa di nuovi scenari, meglio continuare a chiedere lumi al sommelier o al cantiniere di turno per provare a capire se abbiamo davanti a noi esattamente il tipo di Fiano che stiamo cercando.