Non si è mai parlato così tanto di Piedirosso, perlomeno in una certa cerchia di appassionati, locali e non solo. Al punto che qualche produttore campano storce il naso, identificando questo improvviso tam tam come un fenomeno passeggero e modaiolo. Vale soprattutto per coloro che ancora associano all’idea del presunto “grande vino” precisi parametri tecnici e quantitativi, difficilmente raggiungibili, secondo questa visione, dalla varietà a bacca rossa per eccellenza della provincia di Napoli.
Io sono il primo, lo ammetto, ad impiegare molte più energie di quanto dovrei su questioni “estetico-metodologiche”, ma forse i vigneron ed enologi scioccati dallo spazio riservato oggi ai piedirosso semplicemente non sono dei grandi consumatori di bottiglie. Altrimenti si accorgerebbero dell’efficacia di questi vini a tavola, della loro capacità di farsi bere senza tanti pensieri, senza necessità di abbinamenti complicati, ma anche senza rinunciare – nelle migliori riuscite – ad articolazione e carattere territoriale. E chi se ne frega se gli estratti non sono quelli di un Taurasi o un Aglianico del Taburno, oppure se qualche impuntatura riduttiva o qualche rusticità tannica non assecondano sempre lo schema grammaticale classico. I winelover più attenti e curiosi hanno scoperto di avere oggi un’alternativa in più da affiancare ai migliori Rossese liguri e alle Vespolina, Barbera e Dolcetto piemontesi , i gamay del Beaujolais e i Frappato siciliani, i Ciliegiolo umbro-maremmani e tanti altri. Quella grande famiglia di rossi “medi”, insomma, che non possono definirsi da invecchiamento ma nemmeno possono essere catalogati come semplici, scontati e inconsistenti. Vini che sembrano trovare armonica sintesi, nonostante l’eterogeneità geografica e varietale, nell’espressione golosa ma non banalmente tonda, carnale ma non sprovvista di scheletro e contrappunti, snella ma non per forza efebica. Vini che perdipiù si possono recuperare a prezzi quasi sempre abbordabili e stappare senza tanti rimpianti, non perché non abbiano la capacità di viaggiare nel tempo ma perché ci vuole troppa pazienza zen per resistere alla tentazione di coglierli nel fiore della gioventù, quando la loro forza fruttata si fa sentire in tutti i decibel.
I piedirosso più riusciti e personali sono definitivamente entrati in questo club decisamente “cool”, che raccoglie attenzione e consensi crescenti da critica e pubblico. I Campi Flegrei e il Vesuvio sono senza dubbio le aree maggiormente esplorate in questi ultimi anni, ma in un’ipotetica orizzontale dedicata al vitigno partenopeo vale assolutamente la pena di ricordarsi anche del Cardamone di Gigino Reale e famiglia.
Siamo in provincia di Salerno, precisamente nella sottozona Tramonti della dop Costa d’Amalfi, dove il piedirosso è di solito impiegato in uvaggio insieme alle tante varietà locali, copiantate nelle piccole terrazze a picco sul mare che caratterizzano lo scenario agricolo di questa zona. Nonostante la tradizione produttiva d questi fazzoletti letteralmente strappati alla roccia sia basata essenzialmente sul blend di vigna, negli ultimi tempi i produttori più conosciuti dell’area stanno puntando forte su una serie di etichette da monovitigno, o quasi, realizzate quasi sempre con l’uva tintore. Dopo una lunga e faticosa trafila per ottenerne il riconoscimento come varietà specifica, e non semplicemente un clone di aglianico come erroneamente si è scritto per un periodo, i vini di punta di Tramonti sono il più delle volte dei tintore in purezza, o quasi, in buona parte provenienti da piante secolari a piede franco, un vero e proprio spettacolo visivo e colturale. Monte di Grazia * propone il Monte di Grazia Rosso, Tenuta San Francesco * l’E’ Iss, Apicella * l’A’ Scippata, mentre la famiglia Reale schiera il potente Borgo di Gete, da tintore all’80 per cento con saldo di piedirosso.
Le percentuali si invertono nel Cardamone, che prende il nome dalla contrada in cui è ubicata la cantina e si configura come rosso di entrata nel listino aziendale. Ma in alcune versioni, almeno dal mio punto di vista, riesce perfino a superare per armonia e definizione il “campione” di casa, come questo 2010 ristappato l’altra sera per accompagnare un pollo allo spiedo degno di questo nome. Rispetto alle declinazioni flegree e vesuviane a cui siamo maggiormente abituati, si manifesta fin dal colore una tempra più ricca e consistente, confermata anche dai richiami di bacche nere, sottobosco, radici scure, mallo di noce. Probabilmente c’è anche il rovere di affinamento a giocare la sua parte sul piano aromatico come su quello estrattivo, ma c’è tanta buona freschezza e la proverbiale sapidità vulcanica a ritmare un sorso agile e spontaneo. La bottiglia termina rapidamente coniugando soddisfazione e digeribilità, lasciandomi solo col rimpianto di averne fatto scorta troppo limitata, nei mesi successivi all’uscita. Sui 15 euro in enoteca.
ps ne approfitto per fare – a nome dell’intera squadra di Campania Stories – i complimenti e un grande in bocca al lupo alla famiglia Reale per la nomination ottenuta dal loro Getis nell’edizione 2014 degli Oscar del Vino, categoria rosati. Mi conforta sapere di non essere il solo a pensare, non da oggi, che si tratta del “migliore” rosato campano per costanza e carattere. Un’altra faccia del piedirosso, peraltro non necessariamente da bere entro pochi mesi, come ho avuto modo di constatare in occasione di una verticale di ben sei annate effettuata in cantina qualche tempo fa e di cui un giorno magari vi racconterò.
Azienda Andrea Reale
Indirizzo: Località Borgo di Gete – Via Cardamone, 75 – Tramonti (SA)
Telefono: +39 089 856144
Sito Internet: www.aziendaagricolareale.it
Email: aziendaagricolareale@libero.it
Superficie aziendale vitata: 2,50 ha (1 ha di proprietà)
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