Il vino per me è sempre stato una buona scusa. Un pretesto.
Un modo, ad esempio, per mettere delle persone attorno ad un tavolo e sciogliere le lingue. O la chiave per entrare in un territorio da una porta laterale e scoprirlo attraverso le sue storie: buffe, talvolta assurde, apparentemente marginali rispetto al nostro campo d’indagine.
Quelle che leggerete di seguito sono la prima e l’ultima storia che ho raccolto durante un pranzo autunnale di qualche tempo fa all’Osteria Caliendo, a Bacoli, e che ho approfondito in seguito. Tutte non entrerebbero probabilmente in un libro. Tutte furono accompagnate da una falanghina del luogo, quella di Vincenzo Di Meo *, e da una bottiglia di Sancerre.
La capitale mondiale della pizza
La mia curiosità nei confronti di Franco di Fraia, detto Caliendo, non si spiegava solo con la sua capacità di procurarsi dell’ottimo pesce fresco, di saperlo cucinare con particolare dovizia e di proporlo a prezzi decisamente ragionevoli. Né tantomeno bastava la splendida vista che si godeva dalla sua veranda, il golfo di Pozzuoli e il Castello Aragonese di Baia immerso tra i pini marini.
Può essere molto semplice, qui nei Campi Flegrei, indugiare in un certo fatalismo, seduti, come si è, su un vulcano potenzialmente più pericoloso del Vesuvio, la cui bocca di fuoco ha un diametro di circa 60 km. Ma la disillusione malcelata da Franco al nostro primo incontro, motivo della mia istantanea empatia, era un sentimento diverso, presente in molti meridionali di età adulta che vivono in un piccolo paesino le cui storie di emigrazione non si esauriscono mai. E anche Franco era stato un emigrante. Quasi trent’anni di carriera alle spalle come ristoratore, oltre dieci dei quali trascorsi in America.
Aveva poco più di vent’anni, nel 1985, quando era arrivato a Scranton, Pennsylvania, per pura coincidenza. Si chiamava Michele Bruno, la coincidenza; un suo compaesano che gli offrì un posto dove dormire e un lavoro nella sua pizzeria, il Brother’s Bruno. Scranton, nella contea di Lackwanna, era il paese che ai primi del novecento aveva avuto la maggiore crescita economica e demografica legata alle vicine miniere di carbone. Tra le comunità d’immigrati quella italiana aveva fornito tanta manodopera, almeno fino al gennaio del 1959, quando le miniere furono chiuse in seguito alla caduta nella galleria Knox, in cui morirono in dodici.
Gli anni trascorsi da Franco a Scranton, la sua carriera come ristoratore e le sue varie esperienze non erano molto diverse da altre che avevo avuto modo di ascoltare. Mi avevano ricordato il film Big Night, diretto e interpretato da Stanley Tucci con Tony Shalhoub. La storia di Primo e Secondo Peluggi, due emigrati calabresi che aprono negli anni ‘40 un ristorante che chiuderà proprio per le difficoltà incontrate con la clientela. Franco, sebbene fossero ambientate 50 anni dopo, non mi raccontava cose molte diverse. Lui che sognava di proporre tartufo e risotti, e i suoi clienti italoamericani che invece chiedevano cannelloni preconfezionati e ravvivati nel microonde, spaghetti precotti che dovevano galleggiare nel tomato e pizza nelle più improbabili varianti, ripetendo all’infinito la parola fast food.
Tuttavia, quando mi parlò di Gaetano Buonsante, un ristoratore per cui aveva lavorato e con cui era ancora amico, la storia di Franco assunse degli aspetti quantomeno buffi. Perché Franco nato a Bacoli, a pochi chilometri da Napoli, era finito nel paese il cui sobborgo, dal nome Old Forge, si definiva la capitale mondiale della pizza.
La capitale mondiale della pizza?
Old Forge?
Fu quando chiusero le miniere che a Old Forge, in Main avenue, spuntarono i ristoranti e le pizzerie le cui insegne indicavano i nomi Revello’s, Mancuso’s, Cafè di Salerno, Café Rinaldi, Ghigiarelli’s, Mucciolo’s, Lettieri’s, Pelosi’s, Gabello’s, Brutico’s, Laurenzi’s, Fortunato’s, Talarico’s e tanti altri ancora raccolti in poche centinaia di metri, molti dei quali aperti dagli immigrati italiani provenienti da Felitto, un paesino in provincia di Salerno.
La creazione della ricetta della Old Forge Style Pizza risale agli anni ‘20 e pare si debba a nonna Ghigiarelli. Sollecitata da un gruppo di operai che s’intratteneva in una partita a carte di ritorno dalla miniera, aveva preparato una teglia rettangolare di pizza, pomodoro aromatizzato con spezie piccanti e una miscela di formaggi: provolone, scamorza e fontina. Questa era diventata la tradizionale pizza di Old Forge (anche se ciascuno l’aveva poi personalizzata con una miscela diversa e segreta di formaggio) con l’alternativa della versione in bianco senza pomodoro. Poche concessioni erano state fatte negli anni. Si erano aggiunte la “nera” (con formaggio, pepe nero, olive e acciughe) e quella con broccoli.
Gaetano Buonsante, invece, era uno dei due figli di Leonardo “Dino” Buonsante, emigrato italiano di Mola di Bari, che nel 1972 decise di trasferirsi da Brooklyn a Scranton convinto di introdurre nella Valle del Lackwanna lo stile newyorkese della pizza: tonda e con mozzarella.
Ovviamente, da quella sfida, nessuno uscì perdente. Ancora oggi la Old Forge style pizza, rettangolare, alta e con doppio formaggio è un vanto, motivo di successo turistico ed economico. Mentre Dino’s Italian Bistrò è diventato una catena di 25 ristoranti disseminati nello stato della Pennsylvania, della Florida e del Colorado, tutti gestiti da Gaetano Buonsante.
Franco, invece, nel 1997 tornò a Bacoli.
Hollywood Bacoli
Non fosse stato un buongustaio capace di mangiare fino a trenta cicarelle in una sola volta, non mi sarei mai imbattuto nel comandante Aldo Scaligero Scalera.
Le poche tracce scritte che avevo trovato su di lui venivano dall’epigrafe che sull’edizione locale di un quotidiano ne annunciava la scomparsa, e che confermarono l’idea di personaggio eccentrico che mi ero fatto in seguito ai racconti di Franco, che me ne parlava ammirato. Innanzitutto per le sue indubbie capacità nel mangiare con le mani, senza l’ausilio di un coltello e senza procurarsi un minimo taglio, le cicarelle: “conosciute anche come canocchie, spernocchie, pannocchie e stracciamusso”, appunto. Il comandante lo andava a trovare almeno una volta la settimana, si accomodava al solito posto, si toglieva la giacca, si slacciava il farfallino – “perché il comandante portava il farfallino” – si arrotolava le maniche della camicia e mangiava le sue cicarelle.
Purché fossero vive prima di finire in padella, s’intende.
Nella chiesa di Santa Caterina, prima che il soprano e l’organista rendessero omaggio, con finezza d’arte, al defunto e al suo amore per la musica, il francescano padre Calogero aveva recitato l’omelia ricordando quel gentiluomo, eroico ufficiale di Marina nell’ultima guerra più volte decorato, noto a Napoli per le sue doti umane, la cordiale vita sociale che animava la sua villa sul mare di Bacoli, dove era ancorata la nave Giobbe che aveva comprato come relitto bellico, restaurandola e intitolandola ad un suo fedele marinaio vittima del mare.
Utilizzata dapprima per ricerche scientifiche nel Mediterraneo, il Comandante Giobbe fu riadattata a mo’ di peschereccio poi.
Sarà stato l’amore per la buona tavola.
Erano celebri le feste che dava il comandante Aldo Scaligero Scalera così come erano celebri quelle che davano suo padre e suo zio nella villa disegnata da Mirko Vucetich. Qualcuno ancora ne parlava e Franco ricordava nitidamente quando Casevecchie veniva attraversata dai macchinoni che andavano a Villa Scalera.
Oltre il fatto che fosse un buongustaio, avevo scoperto che il comandante era stato molto amico di Jean Renoir, il cineasta, che lo aveva omaggiato di un quadro del padre Pierre-Auguste, pezzo pregiato della collezione esposta a villa Scalera. La conoscenza risaliva al periodo in cui, prima di arruolarsi in Marina, il comandante si era occupato dei rapporti internazionali di una casa cinematografica: quella fondata da suo padre Michele e suo zio Salvatore. La Scalera Film.
Gli Scalera furono costruttori tra i più attivi nell’edilizia civile a Napoli e a Roma e tra i principali destinatari degli appalti del regime fascista, costruzioni di aeroporti civili e militari, realizzazione delle più importanti opere stradali dell’Impero. La Scalera Film nacque nel marzo del 1938 dietro suggerimento di Mussolini interessato all’esplosione autarchica di questa nuova industria. Agevolati dalle opportune leggi rimpiazzarono la produzione hollywoodiana allontanata dal monopolio voluto dal duce.
La Scalera adottò, prima in Italia, il modus delle major: la realizzazione di film a ciclo continuo, in stabilimenti di ripresa propri e con attori e tecnici scritturati in esclusiva. Fu creata una casa di distribuzione e furono rilevati gli studi della Caesar Film di Giuseppe Barattolo in fondo alla circonvallazione Appia, nei pressi della ferrovia a Roma. La Scalera produsse tra i più importanti film dell’epoca, il debutto di Roberto Rossellini alla regia e quello di Michelangelo Antonioni, fino alla realizzazione, prima della messa in liquidazione nell’aprile del 1952, de L’Otello con Orson Welles, passando attraverso varie vicissitudini in gran parte legate al secondo conflitto mondiale.
Mi sono chiesto, in seguito, il senso di tutte le storie che mi furono raccontate quel pomeriggio come fossero vaticini sibillini; e delle altre che scoprii successivamente. Avevano in comune una dimensione onirica tipica di questi luoghi. Luoghi capaci di sedurre, ma spesso abbandonati. Erano storie di viaggi, di speranze e sogni – infranti o realizzati – terribili realtà e meravigliose quanto inaspettate finzioni cinematografiche dove sense e nonsense s’intrecciavano tra loro.
Il 23 luglio 1943 Michele e Salvatore Scalera furono posti in stato di arresto ad opera dei badogliani. Villa Scalera fu requisita dal Ministero della Guerra e affidata agli alleati dopo la firma dell’armistizio. Verso la fine del 1945 novanta ebrei reduci dai campi di concentramento di Belsen-Bergen, di Buchenwald e di Mauthausen furono ospitati presso la villa; altri novantaquattro giunsero tra il giugno e il luglio del ‘46, provenienti, in gran parte, dal campo di Santa Maria di Leuca. Crearono il Kibbutz Mekor Baruch, dal nome del fondatore Baruch Epstein, nato a Liverpool nel 1911, divenuto rabbino nel 1939 e cappellano ebreo al seguito delle forze alleate dal 1941 al 1946.
Vissero a Bacoli per circa un anno, contribuendo a modo loro alla ricostruzione, e rimasero a villa Scalera fino alla notte del 3 agosto 1946, quando s’imbarcarono alle 3 e 30 sulla goletta francese Idéros diretta verso le coste della Palestina. Era condotta dal comandante in seconda Jonathan Kinarti, il secondo era un ebreo tedesco che rimase in silenzio per tutto il viaggio per timore di ritorsioni.
L’Idéros fu la prima delle sole sette navi clandestine che riuscì ad aggirare la Royal Navy Britannica, che presidiava le coste palestinesi per respingere gli ebrei in fuga, e arrivò a Sdot Yam il 16 di quello stesso mese, dove gran parte dei fuggiaschi si stabilì.
Posso solo fare ipotesi su chi abbia pagato quel viaggio e sul come fu possibile aggirare la Royal Navy.
Al tramonto ascoltai l’ultima delle paradossali storie che Franco quel giorno di autunno mi raccontò e che durarono il tempo di una bottiglia di falanghina e un’altra di Sancerre. Quella dell’unico ebreo, il cui nome non ho ancora scoperto, che rimase per sempre a Bacoli e non lasciò mai villa Scalera dove, con buone probabilità, è stato sepolto. Sfuggito alle atrocità dei campi di sterminio, morì una notte di quell’estate del ’46 allorché sorprese, rientrando in casa, un ladruncolo che scappando gli sparò.
Franco si affacciò in cucina, accese le piccole lampadine sul terrazzo e indossò il grembiule, si preparò ad accogliere i clienti che di lì a poco sarebbero arrivati. Le luci illuminavano il porto di Pozzuoli dirimpetto e scie di luminarie ne tracciavano le strade. S’adombravano le ciminiere abbandonate dell’Italsider di Bagnoli, l’isolotto di Nisida e il Vesuvio alle sue spalle, mentre punta Pennata, che chiudeva alla destra il golfo, la immaginavo dietro la folta chioma di un albero di alloro. Nel mare che s’incupiva il profilo di un peschereccio; lasciava il porto dietro di sé.
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Note
1. Franco di Fraia ha, soprattutto, due vezzi. Il primo è il jazz, ascoltato sin da ragazzo: quando “si nascondeva dagli amici che sentivano Baglioni per cercare una stazione radio che trasmettesse Charlie Parker *”. Uno dei suoi pochi svaghi quando era a Scranton (New York city è a un’ora e mezza di auto) era quello di andare appena poteva al Birdland. Il celebre locale del jazz, di cui Parker era stato headliner, aveva riaperto i battenti nel 1986, trasferendosi dalla originale sede sulla cinquantaduesima strada nella Upper West Side, la zona alta dell’isola di Manhattan, al 2745 Broadway. Fu grazie a Gianni “Johnny” Valenti, figlio di italiani di Bisceglie.
Ritornato a Bacoli, Franco è stato tra i principali fautori del Jazz Club Campi Flegrei e nella sua vecchia osteria hanno suonato tutti i principali interpreti italiani e molti di quelli mondiali.
L’altro vezzo, invece, si consuma il giorno di chiusura dell’osteria. Franco ha un gozzo attraccato al porticciolo di Casevecchie, davanti Villa Scalera. Il lunedì, quando la stagione lo consente, esce per andare a pesca di buon mattino e non torna se non al tramonto. E vuole stare da solo.
2. Nonostante casa Caliendo, dove ha vissuto papà Antonio e gli zii Biasì, Ciro, Peppino, Maria e Lina, sia l’ultima dell’antico borgo dei pescatori di Casevecchie, di fianco a Villa Scalera, nonostante il fatto che quasi tutti loro furono impiegati, in ruoli e mansioni diverse, all’interno della villa o sul Comandante Giobbe, nonostante la consuetudine con Aldo Scaligero Scalera, suo buon cliente, Franco nella storia dell’Idéros ci si è imbattuto per caso. Quando due ebrei che vi furono imbarcati, cinquant’anni dopo, decisero di tornare a Bacoli e si ritrovarono nella sua vecchia osteria. Fu lui a metterli in contatto con il comandante Aldo Scaligero: l’incontro a Villa Scalera cui ebbe modo di assistere fu particolarmente toccante.
Alla storia dell’Idéros si sono dedicati nel tempo varie persone, con particolare dedizione Alain Braun, giornalista ebreo francese (link). Personalmente, oltre il racconto di Franco, le chiacchierate con alcuni degli zii ancora in vita di quest’ultimo e le ricerche, la gran parte dei dettagli, nonché il materiale fotografico, mi è stato fornito da Elio Guardascione, preziosa risorsa culturale bacolese.
3. Dopo il My Place a Scranton e la vecchia Osteria Caliendo, negli stessi locali dell’Eliseo, il ristorante di suo zio Biasì, Franco ha deciso di darci un taglio con le pizze. Trovate la sua nuova osteria di mare in via Mozart 67: un vecchio rudere completamente riattato, bianco splendente e con le porte colorate d’azzurro intenso. Si mangia in veranda e si guarda il golfo di Pozzuoli. Il menu “a voce” asseconda il pescato fresco del giorno, la verdura e gli ortaggi vengono dall’orto dietro l’osteria. La pasta è Gentile di Gragnano. Il conto intorno ai 35/40 euro vini esclusi (081.5234073). In primavera e d’estate, di giorno o di sera, il momento più bello per andarci.
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