Da quando frequento la scrittura intorno al vino, non credo sia passato neanche un anno senza che qualche collega più o meno ispirato mi abbia messo a parte della sua rivelazione decisiva: «Sarà l’estate dei rosati!». E giù consigli non richiesti per acquisti improbabili, sfilze di rosati da non farsi assolutamente scappare, pena la retrocessione tra i provinciali del pregiudizio di gusto.
«Non hai ancora bevuto il Quattro Crisantemi di Eunuco Tigrozzi? Scusa, ma dove vivi? Non hai letto gli esiti sconvolgenti della degustazione verticale che l’Alito di Bacco ha dedicato al Rosa della Baia di Pinuccio Scese? Praticamente non si parla d’altro… ».
Se poi consideriamo gli argomenti snocciolati a sostegno di queste rivelazioni sul presunto exploit qualitativo del rosato italiano, accanto all’involontaria comicità di certe tesi e a una generale inconsistenza della prospettiva critica, si affaccia puntuale il nostro endemico cerchiobottismo. Fresco e profumato come un bianco, ma con la polpa e talvolta anche la ciccia di un rosso, il rosato sarebbe il partner ideale della tavola estiva in tutte le sue varianti più esotiche. Dal couscous all’agrodolce, dal guacamole alle cavallette, tutto verrebbe puntualmente sublimato dal piglio spensierato del vino rosato, dalla sua croccantezza del frutto, dalla sua femminile accoglienza.
A questo punto, però, non vorrei che il lettore più smaliziato fosse fuorviato dalla vena acidula sottesa alle mie premesse: l’ironia a buon mercato non fa più per me e da quest’estate mi sono iscritto anch’io al club degli estimatori del rosato. A vincere lo scetticismo e a propiziare la conversione ci hanno pensato oltre una ventina di vini rosati assaggiati in questi mesi di peregrinazioni guidaiole nel tanto bistrattato Mezzogiorno: dall’Abruzzo a Pachino, passando per il Salento, la Calabria, l’Etna, il paesaggio del rosato sudista non mi è mai sembrato così avvincente.
Provare per credere i Cerasuolo di De Fermo, Pettinella e Praesidium, oltre al classico Piè delle Vigne di Luigi Cataldi Madonna; o i rosati salentini di Apollonio e Monaci; o quelli calabresi di Casa Comerci e Spiriti Ebbri, tanto per fare qualche nome nuovo. E poi, varcato lo Stretto, il Rosato di Bonavita, l’Eloro di Curto, per non parlare dello straordinario rosato etneo di Valcerasa, il Rosso Relativo 2011, altro caso eclatante di ottusità burocratica, che va ad aggiungersi alla lista già ben nutrita di piccole gemme enologiche cui una commissione di scienziati della degustazione ha pensato bene di negare la Doc.
Se il Masna non mi caccia prima, affiderò al prossimo numero di Enogea * il racconto dettagliato di questa sorprendente esplorazione. Per ora restiamo in Campania: cosa propone di buono la Campania del vino rosato? In un panorama non così esaltante, l’etichetta che mi ha più convinto viene dai terrazzamenti a picco sul mare della Costiera Amalfitana: cantina Le Vigne di Raito, comune di Vietri, località Raito. Il nome è Vitamenia e rilascia già una sua vitaminica energia. Il colore è generoso e comunica una spontaneità che ritorna anche ai profumi di buccia di ciliegia; la trama è polputa e succosa, i tannini saporiti, la chiusura tenace, con piacevoli ritorni agrumati e una vivace scodata salina.
In tutta franchezza, non saprei avventurarmi a predire al Vitamenia di Patrizia Malanga, da uve piedirosso (80%) e aglianico, il futuro di un rosato che invecchia, tipo Bandol o Tavel. Per ora me ne godo la piacevolezza spensierata ma non banale, la scorrevolezza fluida, glissant, ma non insipida. E mi ricredo sul vino rosato, assaporando un bagno a mare. Intorno ai 15 euro in enoteca.
Le Vigne di Raito
Indirizzo: Via San Vito, 9 – Fraz. Raito – Vietri sul Mare (SA)
Telefono: +39 089 233428
Sito Internet: www.levignediraito.com
Email: info@levignediraito.com
Superficie aziendale vitata: 2 ettari
Produzione annua (media): 7.000 bottiglie
Visite e vendita diretta in azienda