Raccontare la Campania del vino in maniera chiara, ordinata ed efficace è operazione tanto stimolante quanto ostica. Me ne rendo conto in ogni occasione di scambio e confronto, che sia una degustazione guidata, una discussione su un forum, una chiacchierata con amici bisognosi di consigli. Ogni domanda secca richiede il contrario di quella sinteticità che cerca, obbligando a risposte articolate e dense di parentesi. A ben vedere tutto potrebbe risolversi in un’unica replica: dipende.
Chi sono i top five della denominazione X? Dipende.
Quali sono i migliori di tale annata? Dipende.
Quanto invecchia di solito questa tipologia? Dipende.
Quando vanno bevuti questi altri? Dipende.
Dipende da un mucchio di cose, per almeno due ordini di ragioni, più volte sottolineate ma mai abbastanza: da una parte l’estrema gioventù del distretto regionale, le cui vicende collettive trovano documentazione da poco più di vent’anni, dall’altra lo sterminato numero di variabili produttive in gioco. La Campania è un vero e proprio macro-cosmo da esplorare con dedizione da speleologi. C’è il più importante patrimonio ampelografico dell’Europa mediterranea, che fa il paio con l’incredibile diversità di suoli, condizioni climatiche ed agronomiche, stili espressivi, filiere, approcci imprenditoriali, e tanto altro ancora.
Da bevitore-appassionato sono naturalmente più interessato di solito ai primi aspetti, ai vitigni, le zone, i cru, le annate, agli uomini e alle donne che tutti i giorni contribuiscono ad arricchire questo strano, anarchico, contraddittorio, meraviglioso luna park di colline e bottiglie. C’è però una questione spesso trascurata, che merita ogni tanto un pit stop: come incidono i prezzi nella percezione e nella collocazione commerciale di questi vini, specialmente per chi opera, da venditore o acquirente, in territori lontani?
Dipende, verrebbe da rispondere anche questa volta. A seconda del punto di osservazione che scegliamo, possiamo trovare argomenti validi a sostegno di due tesi praticamente opposte. I vini campani costano troppo per alcuni versi e troppo poco per altri, seguendo una linea di demarcazione percettiva estremamente labile.
Divertimento e fatica
Semplificando al massimo, i vini campani costano in generale troppo in rapporto a quanto poco sono ancora noti su larga scala. Al netto dei marchi e delle denominazioni più forti e radicate, fuori dalla regione si conosce e si assaggia pochissimo rispetto all’incredibile offerta di vitigni, terroir ed interpreti. Come detto non è facile districarsi tra così tanti nomi, disciplinari, profili, e per un operatore estero sono difficoltà di orientamento talvolta quasi insormontabili.
Ma i vini campani costano troppo anche e soprattutto rispetto alle esigenze di mercati che giocano tutto sul fattore quantità legato al prezzo basso. Ci sono pochissime zone della regione dove è possibile praticare una viticoltura intensiva, magari meccanizzata, creando dei margini convenienti per vini proposti intorno ai 3 euro, per i bianchi, e a ridosso dei dieci per i rossi più impegnativi. Fu questa l’intuizione più importante della famiglia Mastroberardino nel secondo dopoguerra, decisiva ai fini degli scenari odierni: per la sua stessa conformazione orografica, la Campania non avrebbe mai potuto competere su volumi ed economie di scala con distretti come quello siciliano, pugliese, laziale o abruzzese. Ecco perché restiamo spiazzati quando ci capitano tra le mani i listini “reali”, sempre più ribassati rispetto a quelli ufficiali. E quando leggiamo di Fiano e Greco venduti a tre euro, di Taurasi e Aglianico del Taburno Riserva proposti ben sotto i 10, è inevitabile fare qualche “cattivo pensiero”.
Un’ambivalenza che si manifesta in maniera ancora più lampante se guardata con gli occhi di un consumatore mediamente informato. Ci sono dei vini campani considerati come campioni assoluti del rapporto qualità-prezzo, specialmente tra i bianchi, e altri giudicati in ultima analisi poco convenienti, soprattutto i rossi a base aglianico. Sotto i 15 euro in enoteca è possibile reperire quasi tutti i migliori vini da Fiano, Greco, Falanghina (senza neanche cominciare l’elenco di quelli più rari), vini che in alcuni casi riescono ad invecchiare senza problemi anche cinque, dieci, vent’anni e tengono testa a bianchi di zone sulla carta più blasonate e che costano tanto di più. A volte si ha perfino l’impressione che questo sia un handicap nell’ottica di un confronto alla pari, specie per quei bevitori (e ce ne sono) convinti che un vino troppo facilmente reperibile, per quantità e prezzo, non possa essere alla fine così straordinario. In altri contesti l’effetto è praticamente ribaltato: chi non ha la possibilità di acquistare direttamente alla fonte, si ritrova sugli scaffali delle enoteche (anche virtuali) e nelle carte dei ristoranti tutta una serie di vini campani a prezzi in linea con quelli di etichette realizzate in denominazioni assai più conosciute e commercialmente radicate. I produttori della regione evidenziano a volte un’idea piuttosto superficiale dei loro “competitor”, altrimenti si accorgerebbero che i loro pur ottimi Taurasi, Falerno, Aglianico del Taburno e del Cilento vanno in diretta concorrenza con alcuni dei più buoni e caratterizzati Chianti Classico, Barbaresco, Etna Rosso, ma anche Barolo e Brunello. Senza dimenticare tutto quello che c’è da scegliere, mettiamo per un cliente di Hong Kong, in una prospettiva mondiale: i rossi di Cile, Argentina, California, Oregon, Australia, Nuova Zelanda, non sono soltanto quelli che ci fa comodo pensare che siano, dolcioni e omologati. Ma anche restando in Europa è bene ricordare che nella stessa fascia di prezzo si pescano fior di etichette in Rodano, Languedoc, Loira, Rioja, Portogallo, e non solo.
A rendere ancora più controversa l’analisi contribuisce anche un’altra questione. I vini campani più ricercati, amati e raccontati dalla stampa di settore non sono necessariamente quelli più rari e costosi. Ed è un unicum, un qualcosa che differenzia in maniera netta il comprensorio regionale rispetto a quasi tutti gli altri. Quando si pensa al meglio di Langa, le prime etichette che vengono in mente sono il Barolo Monfortino di Giacomo Conterno, le Etichette Rosse di Giacosa, il Ca’ d’ Morissio di Giuseppe Mascarello, il Barbaresco Crichet Pajé di Roagna, i Sorì di Gaja, vini reperibili sul mercato secondario a prezzi compresi tra i 180 e i 400 euro. Se ci spostiamo a Montalcino, il discorso non cambia: l’associazione immediata è con i Brunello Riserva di Biondi Santi, Soldera e Poggio di Sotto, i cru de La Cerbaiona, Salvioni e Siro Pacenti, che vuol dire avere a disposizione un budget dagli 80-100 euro a salire sopra i 300. Quando si nomina Taurasi, invece, il punto di riferimento più trasversale è rappresentato dalle Etichette Nere e Bianche del Radici di Mastroberardino, che viaggiano a ridosso dei 20 euro, o poco più. Non è semplicemente una questione di storia e reperibilità: nel caveau di Atripalda sono custodite in forma di bottiglie le vette più alte (e universalmente accreditate) toccate dall’aglianico irpino in oltre un secolo. Ci sono naturalmente tanti bravissimi artigiani che negli ultimi lustri hanno ampliato la rosa delle eccellenze, ma molti di loro devono ancora dimostrare a pieno di essere con i loro vini all’altezza di bottiglie mitiche come i Cru Riserva ’68 (e non solo), non fosse altro che per ragioni “anagrafiche”.
Esempi del genere valgono per quasi tutti i territori regionali, a testimoniare meglio di tante parole quanto le gerarchie in Campania siano mobili e in continua evoluzione. E’ sufficiente del resto fare mente locale sulle letture proposte dalle principali guide, riviste, testate web, nazionali ed internazionali: sono relativamente pochi i nomi di aziende e vini presenti in tutte le liste di premi, recensioni e consigli. Estremizzando il concetto, potremmo quasi dire che non esistono leader indiscussi e incontrastati, se non per periodi molto brevi, mentre c’è un gruppone formato da una quarantina di aziende (e una sessantina di etichette) che si scambiano di volta in volta le posizioni negli aggiornamenti dell’hit parade regionale. Vale forse la pena, dunque, prenderci un attimo per analizzare le caratteristiche commerciali di questa “nazionale” del vino campano. Soffermandoci, in particolare, su quei vini che si posizionano su listini al momento inconsueti per gli standard regionali e provano a giocarsi le proprie carte sul cosiddetto “segmento deluxe”, nel quale rientrano per convenzione quelli reperibili sui canali di vendita secondari a prezzi che superano i 50 euro.
Sono una decina di etichette per adesso, non di più, molto diverse tra loro per storia aziendale, provenienza territoriale, configurazione varietale, impostazione stilistica. Ce ne sono alcune che hanno accompagnato il boom produttivo esploso in Campania negli anni ’90, diventando dei veri propri vini cult a livello mondiale, ce ne sono altre affacciatesi sulla scena in tempi decisamente più recenti, configurandosi come simboli di nuovi ambiziosi progetti. Chiaramente da acquirente-consumatore vivo in un sogno irrealizzabile dove i vini che mi piacciono di più costino il meno possibile, ma in una prospettiva di filiera la faccenda è senz’altro molto più complessa.
La sottile linea del prezzo
Non serve una laurea in economia, forse, per sapere che il mercato è tra le varie cose il luogo di incontro tra una domanda e un’offerta, dove il prezzo è chiamato a dare un valore al bene o al servizio proposto, con meccanismi tutt’altro che lineari. Non è detto, per esempio, che ad un prezzo inferiore corrispondano volumi di vendita più alti, come non è così automatica una riduzione della domanda a fronte di costi d’accesso più elevati. Di sicuro è uno di quei fattori che vivono su un equilibrio tra i più sottili e delicati, il cui raggiungimento è valutabile solo prendendo a riferimento un determinato arco di tempo. Brutalizzando al massimo, possiamo concludere che l’ultima parola spetta proprio al mercato: se vendi a prezzi alti e vendi tutto, con continuità e non solo in una finestra episodica, hai ragione tu e non c’è nient’altro da aggiungere.
Resta da capire come le singole vicende commerciali di questo gruppo di vini producano effetti a livello collettivo. Se si tratta di etichette in grado di aggiungere valore ai territori che le generano, nonché di trainare le migliori interpretazioni della medesima zona. Oppure se abbiamo a che fare con tentativi velleitari, destinati a non incontrare mai il mercato “reale”, finendo addirittura per danneggiare l’immagine delle denominazioni rivendicate e, di conseguenza, dei vigneron più talentuosi. Anche in questo caso non possiamo fare a meno di avviare il ragionamento con un: dipende. Come detto non basta un prezzo più alto per diventare una griffe e ciascuna delle etichette ricordate nel successivo riepilogo ha seguito un proprio specifico percorso produttivo e commerciale, senza alcun coordinamento, per cui generalizzare è impossibile, oltre che inutile. Scorrendo la lista, comunque, risulta evidente come quello premium sia un segmento ancora marginale per chi vuole confrontarsi con il meglio della vitienologia campana. Sotto i 50 euro in enoteca italiana possiamo recuperare il 99% di cru, selezioni, riserve che catturano l’interesse di operatori e appassionati. Non sono in grado di dire se si tratti di una buona notizia per la filiera nel lungo periodo, di sicuro lo è per chi al momento ha budget di spesa limitati ma non vuole rinunciare a bottiglie originali, affidabili, territoriali, longeve e ad alta vocazione gastronomica.
Campania Deluxe – I Vini della regione reperibili in enoteche italiane ad oltre 50,00 euro
Chi acquista in enoteca o sceglie un vino al ristorante, sa bene quanto i prezzi siano soggetti a continue oscillazioni, legate a numerosi parametri quali la tipologia di locale, le scorte di magazzino, il profilo della clientela, e tanto altro ancora. Non è un caso se le varie guide, riviste e testate web parlino sempre di costi indicativi per i vini recensiti e sono istruzioni per l’uso valide anche in questo caso. Per determinare le etichette della lista ci siamo rifatti ad un calcolo molto semplice: prezzo di listino franco cantina comunicato dalle aziende per l’aggiornamento annuale dei data base, a cui è stato aggiunta l’iva (22%) e un ulteriore ricarico del 40%. In pratica sono tutti i vini campani proposti con listini superiori ai 30 euro + iva. Naturalmente è possibile che su determinati canali di vendita si possano incontrare altri vini non presenti nella lista prezzati sopra i 50 euro, specialmente se si tratta di vecchie annate e bottiglie rare.
Quintodecimo – Taurasi Vigna Quintodecimo Riserva – 120,00 €
<<Credo che un grande Taurasi, capace di viaggiare nel tempo con integrità e autorevolezza, non abbia niente da invidiare a un grande Barolo, un grande Brunello, un grande Bordeaux. Il progetto che stiamo costruendo a Quintodecimo vuole servire anche a dimostrare e sostenere questa evidenza, nell’interesse di tutta la denominazione>>. Parole di Luigi Moio, sottolineate ogni volta che abbiamo avuto la possibilità di andarlo a trovare nella sua tenuta-chateau di Mirabella, costruita con la compagna Laura Di Marzio da quasi 15 anni ormai. Il suo Taurasi Vigna Quintodecimo Riserva è al momento l’etichetta campana più “cara”: tirato in circa 2.500 esemplari e prodotto solo nelle annate considerate all’altezza, sono state commercializzate finora le versioni 2004, 2005 e 2007, mentre nel 2006 e nel 2008 le uve sono confluite nell’Aglianico Terra d’Eclano. Dal 2009 gli si affianca un secondo cru, il Taurasi Vigna Grande Cerzito Riserva, proposto allo stesso prezzo di listino.
Feudi di San Gregorio – Pàtrimo – 80.00 €
La storia del Pàtrimo si lega a doppio filo con quella di Feudi di San Gregorio, e in particolare dei suoi anni di massima esposizione mediatica. Una vicenda controversa, in quanto la corazzata di Sorbo Serpico durante la gestione Ercolino-Cotarella scelse come proprio vino di punta un merlot in purezza, varietà in buona parte estranea alla tradizione della zona, non ancora autorizzata in provincia quando uscì sul mercato la prima vendemmia, targata 1999. Le prime annate andarono letteralmente a ruba, completamente esaurite in pochi mesi, complice anche il riconoscimento di “Rosso dell’Anno” attribuito dalla Guida Vini d’Italia di Gambero Rosso-Slow Food al millesimo 2000 e i punteggi elevati arrivati dalla critica anglosassone. Il clamore è progressivamente scemato nella fase successiva e nell’ultimo lustro sono altri i vini di Feudi di San Gregorio segnalati tra le riuscite più interessanti da guide e riviste. Ma nel “mondo reale” le cose vanno diversamente: come ci racconta l’attuale presidente Antonio Capaldo, il Pàtrimo conserva un forte appeal sul mercato internazionale e le circa 10.000 bottiglie prodotte annualmente (nessuna annata saltata, sta per uscire il 2011) vengono regolarmente assorbite senza affanni.
Masseria Frattasi – Aglianico Kàpnios – € 75,00
Aglianico amaro appassito, recita l’etichetta del Kàpnios, la “superselezione” proposta da Masseria Frattasi a partire dalla vendemmia 2003, che si ispira allo stile produttivo dei rossi più importanti della Valpolicella. Le uve delle vigne di Montesarchio (versante caudino del Taburno) sono raccolte la seconda decade di novembre, lasciate appassire in fruttaio all’aperto e successivamente vinificate, con affinamento in barriques nuove di 24 mesi e un altro anno in bottiglia. E’ un rosso di stampo dichiaratamente moderno, opulento e glicerico, da fine pasto e “meditazione”, come si usa dire, più che per la tavola quotidiana, al di là del prezzo.
Vinosia – Irpinia Aglianico Sesto a Quinconce – € 75,00
Il Sesto a Quinconce è l’Aglianico di punta di Vinosia, azienda guidata oggi da Luciano Ercolino. Anche questo è un rosso giocato sulla potenza e gli estratti, con un’indole da “supercampano” più che da classico irpino. Se ne producono circa 7.000 bottiglie.
D’Orta-De Conciliis – Zero – € 67,00
E’ l’etichetta che più ha contribuito ad accendere i riflettori sulle ambizioni della vitienologia cilentana alla fine degli anni ’90, insieme al Naima e al Cenito di Luigi Maffini. Prodotto per la prima volta nel 1997, nasce dal sodalizio tra Bruno De Conciliis e Vinny D’Orta, con l’idea di plasmare un aglianico supercampano, come viene descritto dai suoi stessi artefici. Raccolta tardiva, maturazione in legno piccolo e nuovo, dotazione polifenolica fuori scala, residuo zuccherino, non è esattamente un rosso da aperitivo, ma è un vino che può contare su una fetta significativa di fedeli estimatori. L’ultima annata reperita in commercio è la 2007, tirata in circa 2.500 bottiglie.
Cantina del Taburno – Aglianico del Taburno Bue Apis – € 60,00
Se lo Zero, il Naima e il Cenito sono i simboli della “rivoluzione cilentana”, il Bue Apis è senza dubbio quello della rinascita sannita. Un vino nato nel 1998 da un’intuizione di Luigi Moio, protagonista di una radicale ristrutturazione nell’impostazione viticola e produttiva della Cantina del Taburno. Da una parte furono accantonati sfusi e bottiglioni, dall’altra si avviarono nuovi progetti di vigna e cantina con l’obiettivo di valorizzare al massimo le parcelle migliori a disposizione della grande cooperativa di Foglianise. Fu deciso fra le tante cose di lavorare separatamente l’aglianico proveniente da una vigna centenaria di contrada Pantanella, vicina alla cantina, lungamente affinato in barrique di rovere e castagno dopo una macerazione di circa 40 giorni. Dopo le prime versioni, celebrate trasversalmente dalla critica di settore, per qualche anno se ne sono un po’ perse le tracce: l’ultimo Bue Apis che mi è capitato in degustazione è il 2004, ma amici e colleghi mi segnalano nuove uscite (per esempio la 2008) in tiratura limitata. E’ un vino di peso e struttura, che divide abbastanza nelle valutazioni oggi, anche alla luce di riassaggi non sempre convincenti sul piano evolutivo delle prime acclamate vendemmie.
Di Meo – Don Generoso – € 50,00
Altro “supercampano” in salsa irpina, prodotto per la prima volta dalla famiglia Di Meo alla fine degli anni ’90. Classico taglio di aglianico con saldo di piedirosso, maturato in legno piccolo per 12-18 mesi, è da allora l’etichetta più ambiziosa della storica cantina di Salza Irpina, almeno dal punto di vista del prezzo. Al di là delle questioni “stilistiche”, anche negli anni più favorevoli a questo profilo di vino il Don Generoso è sembrato sempre un passo indietro rispetto ai Taurasi Riserva di casa, quanto a carattere ed identità territoriale. Ha saputo comunque ritagliarsi un proprio significativo spazio commerciale con le circa 4.000 bottiglie attualmente prodotte.
Molettieri – Taurasi Vigna Cinque Querce Riserva – € 50,00
Non è possibile condensare in poche righe la storia di Salvatore Molettieri e famiglia, tra i primi vigneron irpini a decidere di trasformare le uve precedentemente conferite e imbottigliare con un proprio marchio. Era il 1983, nei fatti un’era geologica fa per le vicende del vino campano: tantissime cose sono cambiate da allora e Salvatore Molettieri è riuscito a diventare uno dei nomi più conosciuti ed amati, non solo in Italia, grazie ai suoi Taurasi fieramente potenti e viscerali, prodotti dalla Vigna Cinque Querce di contrada Iampenne, a Montemarano. Dal 1995 ne realizza una versione “annata” e una Riserva (meno di 4.000 bottiglie), che si avvale di un affinamento più lungo in cantina e in bottiglia, ed è stato il primo Taurasi a superare la soglia dei 50 euro in enoteca.
Joaquin – Campania Fiano Piante a Lapio – € 77,00
Il marchio Joaquin Wines prende forma nel 2006 grazie all’intraprendenza di Raffaele Pagano. Nei primi anni ci siamo confrontati con una serie di progetti “one shot”, come vengono definiti dallo staff aziendale: singole etichette prodotte in una sola annata e non più ripetute, a cui se ne affiancano altri destinati a durare nel tempo. Tra questi c’è il “Piante a Lapio”, storico cru del Fiano di Avellino dove sono state prese in gestione alcune vecchie vigne a tendone, dislocate in varie parcelle di località Ferrume. Le uve raccolte vengono diraspate e macerate a temperatura ambiente per 6-12 ore, prima della fermentazione spontanea avviata in acciaio e completata insieme alla malolattica in botti di castagno. L’affinamento prosegue per circa 8 mesi, con frequenti batonnage. La prima e unica uscita commercializzata per ora è la 2011: poco più di 2.000 bottiglie vendute intorno agli 80 euro a scaffale. Non ho avuto ancora modo, invece, di assaggiare né reperire il Taurasi Riserva della Società, la cui prima release (annata 2009) è destinata a rinfoltire il gruppo di vini qui ricordato.