Paolo, secondo te perché i vini campani non riescono ancora a sfondare su larga scala per come meriterebbero?
Se mi avessero dato un euro ogni volta che mi hanno posto questa domanda, oggi sarei probabilmente su una spiaggia caraibica a prendere il sole e sorseggiare mojito corretto con fiano di altura. Il fatto è che le cose viste da fuori appaiono un tantino diverse da come siamo abituati a raccontarcele quando restiamo sempre tra le solite quattro mura. Ho la fortuna di avere tanti amici e colleghi “alloctoni” letteralmente innamorati della Campania da mangiare e da bere, ma la loro percezione è da tempo quella di un terroir “emergente”, pronto ad esplodere ma per molti versi ancora frenato da varie timidezze.
E’ una domanda che mi crea sempre sensazioni contrastanti. Da una parte sono contento, perché segnala in persone appassionate e competenti un interesse che va oltre le questioni del bicchiere e del buono-non buono. Dall’altra è una piccola ferita che si riapre ad ogni occasione, portandomi a pensare che molto è stato fatto in questi anni, ma la strada da percorrere nella mia regione è ancora lunghissima, per tutti: produttori, operatori, giornalisti, bevitori.
La risposta non è ovviamente facile né breve, di solito. Tra i numerosi motivi che spiegano i “ritardi” del comprensorio campano, alcuni dei quali solo fisiologici, dal mio punto di vista si sottovalutano quelli legati fondamentalmente al campanilismo. Problematiche che si manifestano in molte altre zone, non solo del sud (vogliamo parlare delle millenarie diatribe comunali e contradaiole in Toscana?), ma che dalle mie parti appaiono assumere forme particolarmente originali e resistenti.
Da lontano non sembra, e in verità non sembrava neanche a me fino a un po’ di tempo fa, ma pure in Campania arde sottotraccia una forte rivalità non solo tra le aziende dello stesso distretto, ma ancor di più tra quelle appartenenti a province diverse. Mai come nell’ultimo periodo si toccano quotidianamente con mano distanze e contrapposizioni tra territori che si percepiscono come antagonisti nell’attuale scenario economico e commerciale. Da una parte è un mood radicato nella cultura regionale, a prescindere dalle faccende vinose: da appassionato di calcio ed ex arbitro, ad esempio, so quanti siano (e quanto siano sentiti) i possibili derby “a rischio” in Campania. In serie A si è giocato per un decennio (dal 1978 al 1988) quello tra Napoli e Avellino, ad onor del vero non così agguerrito sugli spalti a quei tempi, ma c’è una lunga tradizione di rivalità anche per quel che riguarda le tifoserie di Avellino e Salernitana, Salernitana e Cavese, Benevento e Nocerina, Casertana e Salernitana, Juve Stabia e Savoia, e tanti altri ancora.
Negli ultimi 10-15 anni si sono un po’ rimescolate le carte e si sono accentuate certe contese non così evidenti in passato, ma per molti versi latenti. Come quelle tra Avellino e Benevento, il derby regionale attualmente più infuocato, non solo sui campi di calcio. Irpini e Sanniti non sono mai andati troppo d’accordo, nonostante siano due popoli in tutto e per tutto fratelli, appartenenti al medesimo ceppo che abitava, dividendosi in tribù, gran parte del sud appenninico prima della conquista romana (link). E’ un’antipatia, chiamiamola così, che si è tuttavia infiammata recentemente, come sanno coloro che seguono con attenzione le vicende del vino regionale.
La storia della rivalità enoica avellinese-beneventana affonda le sue radici, se così si può dire, nella seconda metà degli anni ’90. Vale a dire la fase in cui c’è stato il boom di nuove aziende in Irpinia, specialmente piccole cantine create da ex conferitori, avvenuto contestualmente con la prima esplosione del “fenomeno falanghina”. Nonostante la stragrande maggioranza delle vigne fosse come oggi collocata nel Sannio, mezza Italia acquistava e beveva una quota molto significativa di bianchi da Falanghina proposti da aziende operanti in provincia di Avellino. In quel momento storico contava ancora più di oggi la completezza della gamma e quasi tutti i brand irpini giocavano sul tris di bianchi con fiano e greco, acquistando uve (e talvolta vini già finiti) nel Beneventano, con imbottigliamento completato nella propria cantina. Ci è voluto molto tempo, e una serie di interventi strutturali, per affermare con forza e chiarezza sui mercati il legame territoriale tra la falanghina e il Sannio. E buona parte del merito va indiscutibilmente ricondotto al lavoro portato avanti dal Consorzio di Tutela, suggellato dalla ristrutturazione delle denominazioni beneventane, completata nel 2011 (link).
Chi di gamma ferisce, di gamma perisce, verrebbe da dire pensando a quel che è accaduto successivamente, negli anni duemila. Finestra nella quale molte delle più importanti aziende sannite hanno cominciato a coltivare e vinificare fiano e greco, inserendoli nelle loro batterie. E’ stata la prima vera “battaglia commerciale” del vino campano contemporaneo: in alcuni mercati, a partire da quello regionale, le cantine beneventane hanno eroso quote significative alle imprese irpine. Sfruttando fondamentalmente due fattori: da una parte la possibilità di indicare in etichetta in maniera visibile i nomi Fiano e Greco (attraverso la Doc Sannio e l’Igt Beneventano), dall’altra la configurazione di listini sensibilmente più bassi rispetto ai “concorrenti” avellinesi.
Naturalmente si tratta di “contrasti” che trovano terreno fertile in aree commercialmente poco consolidate come quelle di cui parliamo. Che fondano buona parte dei fatturati su mercati chiusi, dove i migliori vini di Irpinia e Sannio sono percepiti come alternativi. Una prospettiva totalmente estranea, invece, in paesi geograficamente lontani ma fondamentali per la sopravvivenza e lo sviluppo della filiera campana, abituati a guardare il mondo del vino nella sua interezza globale. Mercati (Stati Uniti, Asia, Nord Europa) in cui un’azienda sannita non rappresenta un concorrente per un’irpina più di quanto lo siano certe cantine di Central Otago, in Nuova Zelanda, di Stellenbosch in Sudafrica, oppure di Matelica e Jesi nelle Marche.
Ma non hanno inciso solo le questioni meramente commerciali in questa rivalità più o meno dichiarata fra le due province più interne della Campania. Hanno avuto un loro peso anche le indicazioni offerte dalla dominante critica enoica, che ha riconosciuto finora un valore decisamente superiore alle produzioni irpine rispetto a quelle sannite. Guide e riviste, sia nazionali che internazionali, hanno dato grande spazio ai migliori vini della provincia di Avellino, molto meno a quelli del beneventano. Una situazione che non viene ovviamente vissuta serenamente da tanti produttori e appassionati sanniti, anche e soprattutto in considerazione del fatto che la provincia di Benevento – come spesso viene ricordato – ospita circa la metà del vigneto campano.
Non è un caso se, mai come in questi ultimi anni, il Sannio abbia investito così tante risorse nella promozione dei propri vini in Italia e all’estero. Scegliendo, oltretutto, di legarsi a specifiche realtà editoriali, attraverso progetti economicamente significativi, anche nella dichiarata intenzione di ottenere maggiore attenzione giornalistica per le proprie aziende. Magari dirottandone una parte da quella, dal loro punto di vista eccessiva, trasversalmente dedicata finora ai cugini irpini. Che hanno potuto fare ben poco finora per rispondere sul medesimo terreno, in primo luogo per effetto di una piattaforma progettuale collettiva nei fatti inesistente. Mi rendo conto di quanto possa suonare lunare ad un importatore o ad un bevitore californiano, ma nel 2014 ci sono ancora personaggi, del mondo della produzione e dell’informazione, che ragionano in termini di “gara” tra province, per esempio su chi prende più o meno premi dalle guide. Tante energie vengono insomma assorbite a tutt’oggi da questioni geopolitiche più che da analisi realmente vicine alle ragioni dell’agricoltura e del bicchiere.
Anche noi nel nostro piccolo, piccolissimo, abbiamo dovuto fare i conti con queste dinamiche. I giornalisti accorsi in regione nell’ultimo biennio per partecipare alle prime tre tappe di Campania Stories non hanno dato spazio nei propri report a tutte le zone e a tutte le province in egual misura. E questo ha chiaramente creato malumori, specie in quei distretti solo raramente raccontati al top delle varie hit parade, che si ritengono ingiustamente sottovalutati e tendono a perdere interesse per un tipo di progetto “unitario”.
Come sempre succede in questi casi, è praticamente impossibile stabilire chi sia maggiormente responsabile nell’alimentare certi meccanismi competitivi. Penso ad esempio agli strascichi derivanti dalla scelta che ha portato la provincia di Avellino a presentarsi col suo spazio istituzionale in un padiglione separato rispetto agli altri territori campani, in occasione dell’edizione 2014 della fiera Vinitaly. Senza entrare nel merito del perché di questa decisione, a più riprese illustrato dalle cantine irpine e dai loro rappresentanti, rimane il fatto che le reazioni da parte della restante pattuglia campana non sono certo state favorevoli. A prescindere dalle intenzioni, sono stati in molti a leggere nell’autoesilio avellinese un modo per sottintendere “ehi mondo, noi siamo l’Irpinia, il terroir principe della regione e non abbiamo niente a che spartire con le altre province, men che meno siamo toccati da problemi del tipo Terra dei Fuochi”. Inutile dire che alcuni degli attacchi più feroci nei confronti delle strategie di promozione dell’Avellinese sono arrivati da esponenti di primo piano del mondo produttivo e politico sannita, con argomenti talvolta ben condivisibili.
Proprio la politica ci ha messo ulteriormente lo zampino negli ultimi anni, creando nuovi pretesti di contrapposizione tra i due popoli delle montagne campane. Nel 2012 il Governo italiano approvò il primo decreto riguardante la progressiva riduzione e cessazione delle province italiane. Senza entrare nei dettagli tecnici, fu stabilito l’accorpamento dei dipartimenti di Avellino e Benevento: per mesi l’informazione locale non si occupò praticamente di altro. Anche in considerazione delle numerose proteste di piazza, manifestazioni, ricorsi, che quasi giornalmente obbligavano a rivedere le opzioni per quel che riguardava il nome da adottare per la nuova provincia, la scelta del capoluogo, la formalizzazione di chi avrebbe perso la propria autonomia in favore di chi, e così via. Ripercorsa oggi, è una vicenda che appare tra il demenziale e il tragicomico, eppure in quei mesi solo pochi si disinteressarono allo scontro, condotto il più delle volte con toni e concetti da ultras.
Già, gli ultras. A loro pensavo, mentre provavo ad immaginare un futuro – mi auguro non troppo lontano – in cui irpini e sanniti, non solo quelli del vino, si rendano conto di quanto gli convenga cooperare virtuosamente. Perché le cose che li accomunano sono parecchie di più di quelle che li dividono, ma molto più prosaicamente perché un’azione coordinata avrebbe prodotto effetti assai migliori nella valorizzazione, nella salvaguardia (smaltimento rifiuti, discariche, trivellazioni) e nelle politiche di sviluppo delle aree interne. Una piattaforma sinergica che poteva forse tornare utile anche sul terreno della comunicazione: se riescono a camminare insieme Senesi e Fiorentini, mi dico, a cominciare dal sistema delle Anteprime Toscane, forse ci possono riuscire anche i nostri. E mentre ci pensavo, mi venivano in mente i cori, gli stessi cori, che le curve sud dello stadio Partenio di Avellino e del Santa Colomba di Benevento hanno dedicato al medesimo calciatore: «segna per noi, Felice Evacuo».
Classe 1982, nato e cresciuto a Pompei, Felice Evacuo è considerato uno dei più forti attaccanti “di categoria” della sua generazione, tra quelli che nell’ultimo decennio hanno orbitato tra Serie B e Lega Pro (l’ex Serie C). Formatosi nelle giovanili della Turris, la squadra di Torre del Greco, ha esordito nella massima serie con la Lazio, a meno di vent’anni, prima di iniziare un lungo peregrinare che l’ha portato a cambiare casacca per ben undici volte (attualmente è tesserato per il Novara Calcio, dove ha iniziato con tre gol in poche giornate).
Nonostante un paio di infortuni gravi, i numeri sintetizzano una carriera già prestigiosa: 143 gol fatti su 367 gare giocate nei vari campionati, a cui se ne sommano altri 25 (su 30 partite) siglati in Coppa Italia, nazionale e di Lega Pro. Grazie alle 5 reti segnate nel primo turno dell’edizione 2010-2011, è stato addirittura capocannoniere del torneo, a pari merito con Samuel Eto’o dell’Inter. Impresa bissata nel 2013-14, dove ha siglato 3 gol e guidando la graduatoria in coabitazione con altri 5 calciatori di serie A e B.
Forte fisicamente ma anche dotato di un’invidiabile tecnica, Evacuo è riuscito a lasciare il segno praticamente in tutte le città in cui ha giocato, contribuendo a ben quattro promozioni nelle serie superiori. Non è naturalmente l’unico calciatore ad aver militato sia nelle fila del Benevento che dell’Avellino, ma è sicuramente quello che ha fatto meglio in entrambe le squadre. Avendo giocato più a lungo con gli “Stregoni”, è considerato quasi una bandiera per i tifosi sanniti, molto di più di quanto lo sia per gli irpini. Ma quelli che nelle ultime stagioni gli arrivano dagli spalti del Partenio, sono perlopiù fischi di “paura”, da “innamorati traditi”. Perché Felice è uno degli ultimi veri bomber di razza ammirati nelle serie “minori” in era “calcio moderno”, capace di esaltare il pubblico con reti di pregevole fattura e soprattutto con tanta determinazione agonistica, spirito di squadra, sacrificio.
Mi piace dunque chiudere questo piccolo excursus sulla rivalità irpino-sannita con una rassegna dei suoi gol più importanti, quelli che hanno fatto esultare tifoserie così impegnate a rivendicare il proprio orgoglio e le proprie diversità. Partecipare è importante, vincere lo è ancora di più, monsieur de Coubertin se ne faccia una ragione, ma non tutte le partite hanno lo stesso valore. Ho il sospetto che dalle mie parti si continuino ad utilizzare tante forze per match decisamente marginali, trascurando i campionati che contano davvero. Forse ci vorrebbe anche un Felice Evacuo nel vino campano.