costiera amalfitana paesaggio

Costa d’Amalfi #1. Appunti di un viaggio verticale

C’è un intero mondo che passa da sempre lungo la Strada Statale 163, quella che collega Meta di Sorrento a Vietri sul Mare, attraversando la costiera amalfitana. Una vertigine dietro l’altra, curva dopo curva, quasi a disegnare un elettrocardiogramma di emozione e stupore. E di difesa. Perché la roccia qui non è paesaggio ma legge, un check point di quasi 50 chilometri che non ammette passi falsi. Spuntoni calcarei come baionette, colate di terra come bombe di ribellione: è il presidio scelto da un mare troppo geloso per essere contemplato oltre il consentito.

E se fosse il contrario? E se il confondersi dell’azzurro avesse il preciso compito di proteggere da occhi indiscreti tutto ciò che accade al di sopra di quelle rocce? Come un’esca ben congegnata, come la manovra diversiva di un corpo speciale. E’ il setaccio che separa il turista dal viaggiatore. Perché ci vogliono testa da antropologo e gambe da scalatore per decidere di lasciarsi alle spalle una bellezza così acclarata per andarsene a cercare una tanto più interrogativa e contraddittoria. Per iniziare un vero e proprio viaggio verticale nel quale ogni tornante sembra aggiungere esponenzialmente distanza con quanto accade più in basso, aprendo le porte a mondi completamente diversi e per molti aspetti insospettabili.

Quelle macchie verdi indistinte che dal mare spuntano fuori tra la roccia viva ed il cemento prendono nella salita la forma e l’odore degli agrumi e degli orti, del bosco e del gregge, dell’ulivo e della vite. Ogni metro verso il cielo è una fotografia messa meglio a fuoco, ogni passo in più una sconfessione delle tue stesse percezioni. Il pescatore si fa contadino e pastore e, tutti e tre, uomini del terzo millennio, sospesi fra acqua e terra, radici e fondamenta, in un gioco imperscrutabile di bisogni e futuro.

Vigne terrazzate a Furore (SA) - Crediti foto: Azienda Marisa Cuomo

Vigne terrazzate a Furore (SA) – Crediti foto: Azienda Marisa Cuomo

La necessità degli stereotipi

Per una volta giochiamo a carte scoperte. Senza rinunciare a nemmeno uno tra cliché, frasi fatte, stereotipi, chiamateli come volete, che da sempre spuntano fuori quando si parla dei vini della Costa d’Amalfi. Viticoltura eroica, microterrazze strappate alla roccia, scrigno di tesori ampelografici, insuperabile incrocio fra terra e mare. Tutto già sentito, è vero. Ma ne siamo poi così sicuri? Siamo davvero convinti che al di fuori della ristretta cerchia di appassionati ed operatori sia così automatica l’associazione fra uno dei luoghi più incredibili e famosi del pianeta e una sorprendente terra da vino?

Ecco uno di quei casi in cui il livello medio e il prestigio della produzione non vanno ancora di pari passo con il grado di conoscenza da parte del grande pubblico. Da una parte, ciò è facilmente spiegabile con una “massa critica” piuttosto limitata, rappresentata da circa 300-400.000 bottiglie annue. Dall’altra, non si può non sottolineare come le politiche di promozione e sviluppo della zona siano state fortemente sbilanciate in questi anni verso una fruizione turistica di tipo “generalista”, tralasciando le specificità di quei distretti che ancora fondano la propria economia sulle attività legate all’agricoltura. Purtroppo, verrebbe da dire. E invece no, perché è proprio in questa specie di amnesia che si nascondono tanti elementi che oggi determinano un interesse così forte sui vini della Costa d’Amalfi. Quello che le proibitive condizioni ambientali e l’isolamento hanno tolto alle aree meno inserite nelle rotte turistiche, oggi viene restituito in termini di identità varietale, originalità stilistica ed organolettica, bevibilità e versatilità gastronomica.

Difficile pensare ad un altro territorio campano che sposi meglio le parole d’ordine più in voga nell’attuale dibattito enologico. Merito innanzitutto dei pochi ma decisivi interpreti che in questi anni hanno puntato tutto su un lavoro di qualità, in molti casi ispirato dalle lezioni indirettamente suggerite da altri territori viticoli ad alto tasso di “eroicità”. Infatti, diversamente da quanto – ad esempio – è accaduto in buona parte ad Ischia, i vecchi e nuovi protagonisti della Costa d’Amalfi hanno saputo rinunciare alla tentazione di trasformare le proprie bottiglie in una specie di souvenir ad uso e consumo di russi, americani e giapponesi.

Costa d'Amalfi, vigna terrazzata - Crediti foto: Raffaele Del Franco

Costa d’Amalfi, vigna terrazzata – Crediti foto: Raffaele Del Franco

Ammiccamenti commerciali non mancano neanche qui, sia chiaro, ma sono ben tenuti a bada da una serie di aziende che hanno impostato tutto il proprio percorso sulla terra e sulla distinzione qualitativa. Da queste parti, ogni metro coltivabile assume un’importanza più prepotente che altrove. Avere vigne di proprietà è un privilegio di pochi, che si misura più in are che in ettari e che non può prescindere da un patto programmatico con i viticoltori rimasti, rapporto che va al di là di una normale dinamica di filiera. Sorvolando per un attimo su pendenze e terrazzamenti, sono la frammentazione e l’anarchia produttiva a rendere queste colline assolutamente uniche nel panorama vitienologico europeo. Una frammentazione che parte dai fazzoletti di terra per estendersi alla tavolozza ampelografica e trovare sintesi in bottiglie di grande attualità, per come sanno rendersi protagoniste a tavola. Fatta la tara alle diverse espressioni varietali e territoriali, sono vini che hanno nella coerenza e nella rilassatezza il loro punto di forza: sfaccettati, scattanti, difficilmente surmaturi o seduti, nelle migliori interpretazioni sanno rendere alla grande, sia aromaticamente che gustativamente, questo speciale connubio tra terra e mare, tutto fatto di scheletro e sapore.

Vale la pena, allora, di lasciarsi il mare alle spalle e risalire, tornante dopo tornante, verso le rotte, solo in apparenza meno scenografiche ed ammalianti, che disegnano il paesaggio della Costa d’Amalfi. Ce ne occuperemo in una serie di approfondimenti dedicati alle tre sottozone in cui si articola la denominazione salernitana, all’interno delle quali andiamo a collocare le migliori aziende del comprensorio.

Ndr – estratto dell’articolo per il quale è stato riconosciuto all’autore il Premio Giornalistico Furore *, edizione 2010, sezione stampa enogastronomica.

collage terrazze

La nascita dei terrazzamenti e l’architettura dei pergolati
di Nino D’Antonio, giornalista e scrittore campano

Divisi per spessore e per altezza, privati della corteccia, allineati su più file come soldati in parata, i castagni sono il primo avamposto di quella geometria di pergolati che, dall’alto di Agerola, digradano verso Furore. Un’architettura aerea, che a partire dalla Grande Guerra, ha via via sostituito l’antico sistema di far crescere la vite intorno a sostegni vivi. Vale a dire a mandorli, noci e nespoli, ai quali legare lunghe pertiche per costruire una solida griglia.

Un sistema dagli incerti confini, tra il vigneto e l’orto, che offre due vantaggi: il primo, di sfruttare il terreno sottostante la vigna per altre coltivazioni; e il secondo, di mantenerlo fresco durante i periodi di grande calura, evitando così il rischio di siccità per la vite. Ma, al di là dei due sistemi (alberi da frutto o pali di castagno), il problema è sempre stato quello di reperire la terra, in un territorio che dall’alto dei Monti Lattari precipita letteralmente a mare con pareti rocciose, massicce e compatte, chiuse in anfratti e forre di grande suggestione, ma decisamente impraticabili.

E qui la millenaria tenacia del contadino ha aggredito la roccia dolomitica, l’ha sfettata, ne ha portato via massi e frammenti, fino a dentellarla in una serie di stretti terrazzamenti. Una geometria di salti, un ordinato sistema di poggioli, recintati a loro volta da un coreo di muretti a secco. Un magistero di civiltà contadina (le cosiddette “macere”, costruite pietra su pietra, senza malta), che trova riscontro solo in due altre realtà, la Valtellina e le Cinque Terre.

Costruiti i terrazzamenti, c’è stato da portare quassù la terra, a spalla. Una fatica pesante, che ha mobilitato nel tempo l’intera comunità e che ha consentito di strappare alla roccia ben trentacinque ettari di vigneti. Praticamente un miracolo, prima ancora che un record. Inoltre, va aggiunto che la natura vulcanica del terreno (le eruzioni del Vesuvio hanno diffuso a lungo raggio una spessa coltre di sedimenti) ha impedito l’attacco della fillossera, e quindi ha garantito la conservazione di viti su piede franco, vale a dire quello originario, senza alcun tipo di innesto. Di qui la sopravvivenza di vitigni autoctoni strettamente connessi non solo al territorio, ma alle tradizioni e alla cultura contadina, oggi considerati fra i più preziosi dell’enologia in Campania.

 

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L'Autore

Paolo De Cristofaro

Paolo De Cristofaro

Irpino classe 1978, lavora a tempo pieno nel mondo del vino dal 2003, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione e il Master in Comunicazione e Giornalismo Enogastronomico di Gambero Rosso. Giornalista e autore televisivo, collabora per numerose guide, riviste e siti web, tra cui il blog Tipicamente, creato nel 2008 con Antonio Boco e Fabio Pracchia. Attualmente è il responsabile dei contenuti editoriali del progetto Campania Stories, nato da un’esperienza ultradecennale nell’organizzazione degli eventi di promozione dei vini irpini e campani con gli amici di sempre. Dal 2013 collabora con la rivista e il sito di Enogea, fondata da Alessandro Masnaghetti.
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