È l’undicesimo minuto del primo tempo, poco dopo le 22 italiane, quando apro la seconda bottiglia di Coda di Volpe di Raffaele Troisi. Dall’estadio Mineirão di Belo Horizonte arrivano le immagini dell’incontro valevole per le semifinali dei campionati del mondo di calcio tra Brasile e Germania. Thomas Müller, alto e dinoccolato attaccante tedesco, ha appena segnato il primo goal della Germania e all’intero Brasile tocca rivivere il proprio peggiore incubo. Di nuovo.
Il giorno del Maracanazo
Alle elezioni presidenziali del 1930, il Brasile ci arrivò profondamente diviso e nel peggiore dei modi: dopo la crisi del ’29 e il crollo del prezzo del caffè, il primo tra i prodotti esportati, i brasiliani erano affamati. I candidati erano il paulista Júlio Prestes, appoggiato dal presidente uscente Washington Luís Pereira de Sousa, e Getúlio Vargas, rappresentante dell’opposizione al regime oligarchico dei grandi proprietari terrieri di San Paolo, espressione dell’Alleanza Nazionale Liberale, coalizione appoggiata dagli stati del Rio Grande do Sul, Minas Gerais e Paraíba. Vinse il primo, si parlò ovviamente di brogli, ma fu l’omicidio di João Pessoa, candidato vicepresidente dell’Aln, a spingere Vargas, con l’aiuto dei militari, alla destituzione del presidente eletto e alla presa del potere attraverso le armi. Ben presto quella di Getúlio Vargas si trasformò in una dittatura fascista tecnocrate-militare chiamata Estado Novo.
In quegli stessi anni in cui Getulio Vargas prende il potere in Brasile, un piccolo dirigente francese della Federazione mondiale del calcio, Jules Rimet, ha pensato a un torneo dove si sfidino le squadre nazionali di tutti i paesi del mondo. La prima edizione di quei campionati, nel 1930, si tiene in Uruguay. C’è anche il Brasile che presenta una selezione dei migliori giocatori del campionato carioca. Nonostante fosse testa di serie, la Seleção non supererà il girone eliminatorio. Nel ’34 i Campionati del Mondo si giocano in Italia e il Brasile arriva agli ottavi di finale. Perde il 27 maggio allo stadio comunale Luigi Ferraris di Genova per 3 a 1 ad opera della Spagna. Per gli spagnoli reti di Iraragorri su rigore e doppietta di Langara. Di Leonidas il gol della bandiera brasiliana. Ma il tempo trascorso in Italia è bastato a Getúlio Vargas per ammirare la capacità del duce, Benito Mussolini, di trasformare i mondiali di calcio in una perfetta macchina di propaganda. Ecco, dunque, l’occasione per legittimare in patria il proprio potere, unire il paese diviso mettendo insieme carioca e paulisti, sfruttare sul piano politico la voglia di riscatto di una nazione intera. Dopo l’edizione del ’38 in Francia, il Brasile avanzerà la propria candidatura come paese ospitante per l’edizione del 1942: un campionato che sarà rinviato a tempi migliori dopo l’invasione della Polonia da parte dei nazisti nel settembre del ’39, e l’inizio del secondo conflitto mondiale.
Nel 1950 l’Europa è ancora in piena ricostruzione e alla Fifa hanno capito che l’unica occasione per rilanciare il torneo è accondiscendere alla candidatura del Brasile come paese ospitante. Sarà il vicepresidente della Fifa stesso, l’italiano Ottorino Barassi, ad aiutare il regime dei militari (che nel frattempo avevano destituito Vargas nel ’45) ad organizzarlo e a costruire lo stadio più capiente del mondo in cui la più grande folla mai vista celebrerà la vittoria della nazionale brasiliana.
È di Barassi, difatti, l’idea delle cadeiras perpetuas, ventimila posti al coperto nel primo anello del futuro stadio Comunal di Rio de Janeiro, meglio conosciuto come Maracanà. Ventimila abbonamenti speciali dalla durata di 100 anni – scadranno nel 2050 – venduti in prevendita e che finanzieranno la costruzione dello stadio.
Ma Barassi è anche più importante per noi italiani e per la Fifa.
Se la nazionale italiana a differenza di Germania e Giappone, escluse dal mondiale perché ritenuti paesi aggressori nel secondo conflitto mondiale, viene invitata a partecipare è per due ragioni. La prima è che siamo i bicampioni uscenti, avendo vinto l’edizione del ’34 e quella successiva del ’38. La seconda è che la coppa, non solo metaforicamente, l’abbiamo noi. Per la precisione è a piazza Adriana, a Roma, sotto il letto di Barassi che la nasconde ai fascisti e alle truppe tedesche. Barassi la passa poi all’avvocato Mauro, dirigente della Federazione, che la nasconde nella casa di campagna a Brembate di Cevenini I° (Aldo) della dinastia dei Cevenini, primo attaccante della nazionale italiana.
Non è così scontata la presenza della nazionale italiana ai mondiali del ’50. La quasi totalità dei suoi giocatori è morta il 4 maggio del 1949 sulla collina di Superga, quando il Fiat G.212 della compagnia aerea ALI si è schiantato sul terrapieno posteriore della Basilica. Era il grande Torino. Tornava da un’amichevole giocata a Lisbona.
I mondiali del 1950 saranno i primi e gli unici che si concluderanno con un girone all’italiana. Non ci sarà mai una vera e propria finale, anche se l’ultima partita risultò decisiva. Si scontravano la prima e la seconda del girone, il Brasile con un punto di vantaggio sull’Uruguay. La Seleção ha due risultati su tre. È pura formalità. Lo sanno gli oltre duecentomila spettatori accorsi allo stadio Maracanà, lo sanno i giornali brasiliani che hanno già titolato inneggiando alla nazionale campione del mondo, lo sanno i generali, ed in particolare, lo sa Ângelo Mendes de Morais, prefetto del Distretto Federale, che nel suo breve discorso di saluto ai giocatori prima del fischio d’inizio disse:
«Voi, brasiliani, che io considero vincitori del Campionato del Mondo.
Voi, giocatori, che tra poche ore sarete acclamati da milioni di compatrioti.
Voi, che avete rivali in tutto l’emisfero. Voi che superate qualsiasi rivale. Siete voi che io saluto come vincitori!»
Alle 16:02 del 16 luglio, due minuti dopo l’inizio del secondo tempo, Friaça, ala destra del San Paolo, porta in vantaggio il Brasile. È il delirio al Maracanà.
C’è solo un problema. La Celeste non ha alcuna intenzione di perdere questa partita. Bastano tredici minuti perché accada l’impensabile. Prima Schiaffino, poi Ghiggia al settantasettesimo minuto, ribaltano il risultato. Brasile 1, Uruguay 2.
Il Maracanà cala in un silenzio profondissimo. Un silenzio che per qualcuno durerà per sempre. Come per Ary Barroso, il popolare musicista brasiliano autore di Aquarela do brasil, che lavorava anche come radiocronista calcistico e che stava commentando la finale: decise, poco tempo dopo, di abbandonare la professione di giornalista. Non commentò mai più una partita di calcio.
Il Brasile proclamò tre giorni di lutto nazionale. Alla fine sarebbero stati certificati 34 suicidi, 7 dei quali all’interno del Maracanà, e 56 morti per arresto cardiaco in tutto il paese.
La maglietta bianca con le strisce blu sul colletto del Brasile non verrà mai più indossata, e dal ’58 la divisa ufficiale diventerà quella verdeoro che conosciamo adesso.
Una partita di calcio come una bottiglia di vino spesso sono molto più di quello che sembrano.
Nelle elezioni presidenziali del 1950, il regime militare venne spazzato via e al potere tornò Getúlio Vargas, stavolta legittimato dal voto popolare. Si uccise quattro anni dopo. La nazionale brasiliana, invece, si riscattò nel mondiale svedese del ‘58. In finale, proprio con la Svezia, vinse il suo primo mondiale di calcio mettendo a segno cinque reti: doppietta di Vavà, rete di Zagallo e doppietta di un debuttante neanche diciottenne. Edson Arantes do Nascimiento. Pelè.
In un mondo in cui la televisione era privilegio di pochissimi, si diffuse il mito del grande Brasile e del suo jogo bonito.
Didì, Vavà, Pelè…y Cocò
Tempo fa ho sentito un detto popolare che faceva riferimento al grande Brasile, ed in particolare a quell’ala destra che sfornava dribbling e cross a ripetizione. Manoel Francisco dos Santos, meglio noto con lo pseudonimo di Garrincha.
Se parlate di Pelè, la gente si toglie il cappello. Se parlate di Garrincha, piange. Era l’alegria del povo, l’allegria del popolo.
Già una volta, a proposito della coda di volpe di Raffaele Troisi, avevo parafrasato questo detto popolare.
Se parlate del Greco di Vadiaperti, la gente si toglie il cappello. Se parlate della Coda di Volpe, piange. Era l’alegria del povo, l’allegria del popolo. Proprio quel che è stato Garrincha.
Ma non è solo questo il motivo per cui ieri sera ho deciso di stappare una delle sue bottiglie.
Il 30 settembre 1973, nel nuovo stadio Partenio costruito un paio d’anni prima, i lupi ospitano il Brindisi. È la prima giornata del campionato di serie B, il debutto, e ad Avellino piove.
I Lupi hanno infranto qualsiasi record nella stagione precedente. Record di punti, 62, per un campionato di serie C che vedeva assegnarne due per ogni vittoria. Diciotto vittorie ed un solo pareggio in casa, dieci gare vinte in trasferta, +5 in media inglese, 64 reti realizzate ma, soprattutto, appena 18 reti subite grazie ad una grandissima difesa. A comandarla Piero Fraccapani. L’Avellino segna persino il primato d’incasso assoluto per la Serie C con 47.997.000 lire, nella gara casalinga contro il Lecce.
Di quella gloriosa squadra sono rimasti solo i difensori Codraro e Piaser. Oltre Fraccapani e l’allenatore Tony Gianmarinaro: uno cresciuto nelle fila del Torino. Uno che giocava nella primavera e, dopo la tragedia di Superga, si trovò in campo tra i calciatori che dovettero sostituire il grande Toro nelle ultime giornate del campionato del ’49.
Ad Avellino piove sempre, sta pensando la nuova ala destra. Indossa la 7 come Garrincha, ma si chiama Cocò.
Non è nato a Rio né a Bahia e quel soprannome se lo è scelto da solo con preciso riferimento ai tre volte campioni brasiliani. Già, perché i brasiliani, nel frattempo, dopo l’edizione del ’58, hanno vinto i mondiali del ’62 e del ’70.
Pare che lo stesso Pelè durante una tournée in Italia abbia fatto riferimento a lui: c’è quel giocatore da voi, che fa benissimo la chaleira. Che in italiano è l’incrociata ma che tutti conosciamo come rabona: un passo di tango e, in castigliano, un colpo di coda.
Cocò la fa talmente bene che dicono l’abbia inventata. Quando aveva dieci anni e giocava per strada a Poggiofranco, il quartiere di Bari dove è nato il 14 maggio del 1952 il più dimenticato dei brasiliani d’Italia: Giovanni Roccotelli, detto Cocò.
Chissà se quella domenica di settembre del ’73, in curva al Partenio, c’è anche Raffaele Troisi.
Cocò è al debutto. Ha solo 21 anni; a 15 ha iniziato a giocare con quelli più grandi nella squadra dilettantistica della Graziani Bari, poi quattro stagioni nel Barletta, tra serie D e C. Quell’unica stagione ad Avellino sarà la sua migliore, con sette reti sarà il secondo marcatore dei Lupi, dopo Giannantonio Sperotto, che ne farà uno in più. Va al Toro l’anno dopo. In due stagioni, solo dieci presenze. All’epoca si poteva fare solo una sostituzione: io ero il cambio di Claudio Sala e il Poeta, mannaggia a lui, non si faceva mai male. Nessuna contratturina, zero bottarelle. Sempre in campo, sempre bravissimo.
Ma non ha importanza, Cocò in quegli anni sarà apprezzatissimo. La rabona oramai è diventata semplicemente il colpo alla Roccotelli, anzi, nelle redazioni sportive Cocò è un modo di dire, adoperato per zittire i colleghi degli altri sport quando reclamano più spazio sul giornale: vale più il colpo di coda di Roccotelli che l’intero campionato di pallacanestro.
Una decina d’anni più tardi di quella stagione in cui l’Avellino e Cocò debuttarono in B, mentre il Dottore Socrates lasciava il Brasile e la sua Democrazia Corinthiana per approdare in Italia alla Fiorentina, nell’omonima contrada di Montefredane, il Professore Antonio Troisi fondava l’Azienda Vadiaperti, una delle prime in Irpinia.
Non si possono condensare in poche righe oltre vent’anni di storia e di bottiglie leggendarie di Greco di Tufo, Fiano di Avellino e Coda di Volpe (link). Né spiegare tutti gli sforzi di Raffaele per tenere in vita un’azienda che, purtroppo, ormai da un paio di anni non c’è più. Ma si deve fare un grosso in bocca al lupo alla sua nuova avventura, perché il marchio Vadiaperti resiste sulle etichette oggi imbottigliate dalla società Traerte di Giuseppe Pisano, Claudio Ciccone e Marco Loria.
Ed è per questo che ieri ho stappato le sue bottiglie: perché anche dopo la più cocente delle delusioni, c’è sempre un’occasione di riscatto, come sanno Raffaele, Pelè e Cocò, e tutti gli amanti del jogo bonito.