Dice bene Franco Arminio: «il Sud ti ammutolisce o ti fa parlare a vuoto». Eppure, leggendo i suoi libri, mi vado convincendo che il vuoto di tante parole non sia un vuoto a perdere, ma a rendere. E dal racconto dei suoi viaggi malinconici nei paesi di un Sud solitario e appartato, sospesi tra un passato che non passa e un futuro che è già passato, io non esco mai avvilito, ma semmai motivato.
Oggi, poi, sono doppiamente motivato, perché sto facendo partire le richieste dei campioni per le degustazioni che la Guida de l’Espresso dedicherà tra un paio di settimane ai vini campani. E il paesaggio di destinatari delle mie e-mail stimola un atteggiamento propositivo e mi invita al viaggio.
Il paesaggio del vino campano si è infatti vivacizzato in questi ultimi anni oltre ogni aspettativa: conserva forse l’anarchia di un Sud promiscuo e contraddittorio, ma non assomiglia più di tanto a quei paesi di cui parla Arminio, dall’aria sgraziata e dalla luce grigia. Anzi, al contrario, sfoggia nomi nuovi e sapori vivi. E anche l’umanità di chi questo vino lo produce, lo racconta e prova a venderlo, il più delle volte sembra guardare all’alternativa tra restare o partire come a un falso dilemma. Hanno tutti deciso di restare, ma partendo continuamente. E provano a inventarsi un batticuore, perché di ossidarsi lentamente non hanno alcuna intenzione.
Oggi non è di un vino che intendo parlare, ma di un altro tipo di batticuore, più legato ai profumi e ai colori di un luogo. Sarà la mia divagazione sannita: e non a caso prendo a prestito questo titolo proprio da un breve paragrafo del Terracarne di Franco Arminio.
Ma intendo cambiarla di segno, questa citazione, capovolgerne il senso. E se Arminio vede prevalere nella provincia sannita «un sistema di vallate e colline in cui i vigneti e gli uliveti devono contendersi lo spazio con la metastasi urbanistica che ha disseminato di case tutte le campagne», io scelgo per contro di concentrare il mio sguardo su un paesaggio sano e vitale, dove la relazione tra gli elementi naturali – il bosco, la pietra, l’acqua – alimenta un circolo virtuoso di benessere che rilascia vibrazioni positive anche ai pensieri e alle parole.
È il paesaggio di Aquapetra *, il resort che ospita già da qualche anno le mie degustazioni guidaiole. Aquapetra è un luogo speciale, un luogo immerso nel bosco sannita, nel silenzio di lecci e ulivi, che recupera in chiave contemporanea la pietra del sito di un’antica cava. Attenzione, però: non si tratta di un recupero posticcio, del tipo di quelli censurati da Arminio e concepiti «per alleviare il senso di colpa di chi ha rottamato troppo in fretta il suo passato». Come suggerisce il nome, l’acqua e la pietra vengono restituiti qui nella loro valenza di elementi originari, con una sottolineatura suggestiva e convincente dell’originaria purezza e quasi nudità della materia. Ma se torno ad Aquapetra non è solo per la magia del silenzio e della luce. E qui la divagazione sannita di Arminio mi offre uno spunto prezioso, un sorprendente elemento in comune con la sua digressione paesologica. Scrive Arminio:
«Ancora un po’ di chilometri e sono a Pietraroja. Qui c’è il piccolo Ciro (Scipionyx Sanniticus il nome scientifico). È il primo dinosauro ritrovato in Italia. Ha centodieci milioni di anni e sessanta centimetri di lunghezza, un cucciolo di poche settimane che mi porta a pensare agli scricchiolii che prefigurano un difficile futuro per la nostra specie se non si deciderà a dismettere i suoi deliri antropocentrici».
Anche Aquapetra ha il suo piccolo Ciro: si chiama Ciro Sannino, ed è un giovane maître napoletano di notevole talento e savoir faire, a cui mi lega un particolare debito di gratitudine. E non solo perché si è fatto carico già da qualche anno di tutta la logistica degli assaggi della Campania del vino targata l’Espresso. Questo sarebbe il meno. Gli sono grato perché sa mostrare con estrema naturalezza e disinvoltura il volto determinato e paziente di un giovane che ha scelto un mestiere che gli piace. È nato a Napoli, lavora a Telese, ma la sua formazione è cosmopolita e contemporanea. La sua passione per il vino e per il cibo è nutrita di curiosità genuina: cioè di una disponibilità che non è mai affettazione, di una capacità di ascolto che alimenta l’indipendenza del giudizio.
Mi piace pensare che di questi piccoli Ciro si vada ripopolando alla svelta la Campania e l’Italia intera del vino, della ristorazione e dell’ospitalità. Non più dinosauri, testimoni isolati di una specie in via di estinzione. Ma ragazzi di talento, che provano a inventarsi un batticuore.