Falanghina (Bacca Bianca)
La falanghina, distinta tra un biotipo sannita e un biotipo flegreo, occupa un posto centrale nella Campania del vino, sotto tutti i punti di vista: produttivo, territoriale ed economico. E’ il vitigno a bacca bianca più coltivato in regione, con oltre 2.000 ettari di vigna censiti (i due terzi in provincia di Benevento), quota superata solo dalle superfici destinate all’aglianico*.
E’ il vitigno più “trasversale”, presente in tutte le province e in tutte le principali zone produttive. E’ il vitigno che produce il maggior fatturato in Campania da almeno un quindicennio a questa parte, con oltre 150 aziende produttrici che hanno nella loro gamma almeno un bianco a base Falanghina, senza contare gli imbottigliatori.
Come tante altre varietà regionali, anche la falanghina ha avuto bisogno di un lungo periodo nel secondo dopoguerra per essere recuperata e valorizzata a pieno, prima di tutto da un punto di vista viticolo. Nella seconda metà degli anni ’90 c’è stato poi un vero e proprio boom commerciale per il vitigno, conosciuto e richiesto ben oltre i confini campani: anche oggi che la crescita si è un po’ assestata, i bianchi da falanghina restano piuttosto stabili nelle vendite, sui canali horeca come nella grande distribuzione, anche per le caratteristiche della filiera che dopo vedremo.
Un successo incredibile che, come spesso accade, ha avuto dei risvolti decisamente più controversi. Per una lunga fase questi vini hanno occupato uno spazio importante tra le “etichette d’entrata”, alimentato da una richiesta di falanghina “generica”: più della provenienza, l’annata o lo stile, a distributori e ristoratori interessavano i prezzi favorevoli (sensibilmente più bassi rispetto a quelli di mercato per i bianchi a base fiano e greco) ed eventualmente una riconoscibilità di brand. Gli stessi produttori in quella finestra hanno nella pratica accettato in pieno il “gioco”, proponendo i loro bianchi di falanghina dopo pochi mesi dalla vendemmia essenzialmente come vini di pronta beva, da consumare in pochi mesi. E ancora adesso che i mercati si stanno evolvendo, è difficilissimo incontrare, anche in ristoranti importanti dotati di cantine profonde, bianchi da falanghina di millesimi precedenti alle ultime uscite.
C’è un altro elemento da considerare: il successo commerciale del vitigno non ha trovato finora piena corrispondenza nella considerazione di critici e appassionati evoluti, soprattutto in Italia, che lo collocano spesso un gradino sotto rispetto a fiano e greco, come un cugino meno “ambizioso”. All’estero la percezione è parzialmente diversa ed è già accaduto alcune volte che importanti riviste – soprattutto americane – abbiano assegnato valutazioni significative ad una serie di bianchi da falanghina (o comunque punteggi superiori rispetto ai fiano e greco prodotti dalle stesse aziende nella stessa annata).
Uno scenario in evoluzione, dunque, che rende d’attualità una mappatura in grado di posizionare interpreti, annate, stili e soprattutto zone. Proprio perché non si dica più “Falanghina” e basta, ma la si racconti senza separarla dai suoi territori di origine.
Cenni storici
L’origine del nome falanghina ha probabilmente una derivazione da ceppo romano balcanico, dal latino falanx, e cioè il palo a cui erano sostenute le viti, sistema che ancora si incontra negli impianti più vecchi, specialmente nei Campi Flegrei. Tradizione vuole che i bianchi più costosi e ricercati di epoca romana, a cominciare dal Falerno Bianco, fossero prodotti con uve in qualche modo imparentate con la falanghina di oggi. Ma è praticamente impossibile stabilirlo con esattezza e in ogni caso non è una questione così centrale rispetto alla “storicità” del vitigno in regione, ampiamente documentata.
Tornando ai giorni nostri, come accennavamo precedentemente anche per la falanghina è stato necessario un lungo tempo di gestazione, prima che diventasse così importante la sua presenza nel vigneto campano. Questo percorso di recupero si è svolto parallelamente su almeno due direttrici territoriali, due zone che anche oggi rappresentano i suoi distretti più significativi, vale a dire il Sannio (provincia di Benevento) e i Campi Flegrei, in provincia di Napoli.
L’aumento delle superfici coltivate a falanghina non ha coinciso fin da subito con un aumento paritario dell’imbottigliato: raccontare la storia della falanghina significa anche rendere conto delle migliaia di ettolitri vendute come sfuso, che avevano come destinazioni preferenziali le regioni del nord Italia, Veneto in primis.
C’è un altro aspetto fondamentale che va considerato: nella prima fase di recupero non esisteva un “modello” stilistico univoco a cui rifarsi, inteso proprio come concetto base di tipologia. Nel periodo del boom, nella seconda metà degli anni ’90, si è imposto soprattutto il profilo di bianco tendenzialmente semplice e fruttato, profumato e immediato, da consumare come aperitivo o bianco da pesce. Con un plus rappresentato da costi come ricordato estremamente favorevoli (i prezzi medi a scaffale per una falanghina d’annata si aggiravano intorno alle 7-8.000 Lire, mentre la maggior parte di Fiano e Greco già viaggiavano ampiamente oltre le 10.000).
Solo in tempi relativamente recenti il lavoro di valorizzazione sulla falanghina si è arricchito di interpretazioni in grado di sottolinearne i suoi pregi in termini di eclettismo produttivo e stilistico, ma soprattutto di riconducibilità territoriale. Ad etichette tirate in centinaia di migliaia di bottiglie e commercializzate dopo poche settimane dalla vendemmia si affiancano sempre di più cru, selezioni da vigna, riserve, ma anche Spumanti, Vendemmie Tardive, Passiti. Un panorama estremamente composito, che richiede una competenza specifica su quello che sta accadendo nei vari distretti dove la falanghina è protagonista.
Aree di diffusione
Il distretto più importante per il vitigno, almeno per quanto riguarda le superfici vitate e i volumi trasformati è senza dubbio il Sannio Beneventano, dove sono censiti quasi 1.300 ettari coltivati a falanghina, circa i due terzi del totale regionale.
Il “padre” riconosciuto dalla falanghina beneventana è senza dubbio Leonardo Mustilli: fu la sua azienda di Sant’Agata dei Goti la prima ad imbottigliarla in purezza e a commercializzarla, negli anni in cui la sua presenza nel comprensorio era ancora per molti versi marginale rispetto a trebbiano e malvasia di Candia. Non va dimenticato , comunque, il ruolo giocato da una serie di enologi che hanno collaborato e collaborano con le principali cooperative della provincia di Benevento. Su tutti Angelo Pizzi e Luigi Moio, che hanno diretto la Cantina Sociale di Solopaca e la Cantina del Taburno, seguendo il processo di riconversione dei vigneti proposto ai loro soci. Processo che è servito a creare rapidamente un’importante massa critica di vigne e vini destinati al mercato della falanghina.
Anche il sistema delle denominazioni sannite ha recepito abbastanza velocemente il boom della falanghina nella provincia di Benevento, sottolineata con maggiore forza della ristrutturazione delle dop provinciali completata nel 2011. E’ stata istituita una specifica Dop Falanghina del Sannio, che tutela l’intero territorio provinciale e prevede la possibilità di indicare 5 diverse sottozone, corrispondenti a quelle che erano 5 doc fino al 2010: Solopaca, Solopaca Classico, Sant’Agata dei Goti, Guardia Sanframondi e Taburno.
Dopo questa ristrutturazione, quindi, tutta la falanghina a denominazione d’origine è commercializzata attraverso la dop Falanghina del Sannio, che prevede un utilizzo minimo dell’85% del vitigno e rese inferiori ai 120 quintali per ettaro. La stragrande maggioranza dei vini, comunque, sono prodotti da falanghina 100% in purezza.
Una quota ancora significativa viene rivendicata attraverso la Igp di ricaduta Beneventano, che prevede la tipologia Falanghina (quando utilizzata almeno all’85%). Sono stimate oltre dieci milioni di bottiglie tra Falanghina del Sannio dop e Falanghina del Beneventano Igp.
Il secondo polo più importante per la falanghina dal punto di vista produttivo è la provincia di Napoli: è presente da secoli alle pendici del Monte Somma e del Vesuvio e oggi se ne coltivano in tutta la provincia circa 500 ettari.
Nelle dop Capri, Vesuvio e Penisola Sorrentina è previsto un suo utilizzo obbligatoriamente in blend, con coda di volpe, caprettone, greco e biancolella (solo a Capri), mentre è il vitigno di riferimento per i bianchi della Dop Campi Flegrei, bacino vulcanico situato a nord-ovest della città di Napoli che dà il nome al biotipo locale. Per la Dop Falanghina dei Campi Flegrei è obbligatorio un suo utilizzo per almeno il 90%. Se Leonardo Mustilli è considerato un po’ il “padre” della falanghina sannita, un ruolo non meno importante l’ha avuto Gennaro Martusciello con la sua famiglia a Grotta del Sole per la valorizzazione del biotipo flegreo.
E prevista la tipologia Falanghina anche dall’Igp Pompeiano (minimo 85%), mentre sono marginali le superfici destinate al vitigno nell’area coperta dalla dop Ischia e dalla sua ricaduta igp Epomeo, che la riconoscono come varietà autorizzata.
Il terzo territorio per superfici di falanghina è la provincia di Caserta, con circa 150 ettari coltivati, concentrati soprattutto nella fascia settentrionale al confine col Lazio.
La tipologia Bianco della Dop Falerno del Massico deve essere prodotta con una percentuale minima di falanghina dell’85, percentuale obbligatoria che scende al 70% per la tipologia Bianco della Dop Galluccio.
La tipologia Falanghina è prevista anche dalle Igp Roccamonfina e Terre del Volturno ed è possibile rivendicarla quando il vitigno è utilizzato per almeno l’85%.
Per quanto riguarda la provincia di Salerno, l’unica zona significativa per la falanghina è quella disciplinata dalla dop Costa d’Amalfi, dove è conosciuta col nome biancazita ed è quasi sempre utilizzata in uvaggio con le altre numerose varietà tradizionali.
La tipologia Falanghina è prevista dalla Igp Colli di Salerno, ma nella vasta area che si apre a sud del capoluogo verso i Colli Picentini e il Cilento il vitigno è praticamente assente nelle vigne.
Un discorso a parte va fatto per la provincia di Avellino: la falanghina era praticamente inesistente nei vari territori fino a meno di dieci anni fa, poi una serie di aziende importanti per volumi commercializzati ha cominciato a creare nuovi impianti, con cui producono e imbottigliano vini rivendicati come Irpinia Falanghina Dop (sono 5-6 aziende al momento, ma altri impianti sono stati realizzati nel frattempo e dai 14 ettari censiti nel 2005 siamo oggi già vicini ai 50). La stragrande maggioranza delle rimanenti aziende irpine ha comunque almeno una Falanghina nella propria gamma, prodotta acquistando uve o vini nel Sannio.
Fuori dalla Campania, possiamo trovare vigne di falanghina in Molise (dove è tipologia prevista dalla dop), ma anche in Puglia, Lazio e Calabria.
Profilo agronomico e organolettico
La falanghina è classificata come vitigno di seconda epoca, con due biotipi come detto geneticamente distinti, quello beneventano e quello flegreo. Varietà vigorosa e di produttività buona e costante, si caratterizza per un grappolo lungo o medio, di media grandezza e compattezza, cilindrico o conico, con un’ala corta; ha un acino medio, sferoide, regolare, con buccia spessa e consistente, di colore grigio-giallastro, con buona dotazione di pruina.
La raccolta si concentra di solito nella seconda metà di settembre, ma può essere anticipata all’inizio di settembre nelle annate più calde ed asciutte ed essere posticipata alla prima metà di ottobre nelle vendemmie e nelle zone più tardive.
La stragrande maggioranza delle falanghine in circolazione sono vinificate con protocolli classici, generalmente con lavoro in riduzione di ossigeno, fermentazione e affinamento in acciaio e imbottigliamento dopo qualche mese dalla vendemmia. Qualche azienda inizia a commercializzare già a gennaio, ma in generale il grosso delle bottiglie è sul mercato in primavera. Come accaduto per altre tipologie, nel corso del tempo sono aumentate le etichette, spesso frutto di cru e selezioni, che vengono proposte in commercio dopo periodi più lunghi di affinamento in acciaio e in bottiglia.
Ma non va trascurato un altro elemento: tra le varietà autoctone campane, la falanghina è quella che forse più si presta ad un utilizzo trasversale in cantina. Un numero crescente di aziende sta puntando su questo vitigno per realizzare dei propri spumanti da metodo Charmat o Classico, con risultati a volte incoraggianti. Così come si riescono ad assaggiare delle interessanti falanghine vinificate in ossidazione, magari con un periodo di macerazione sulle bucce, oppure falanghine fermentate e/o maturate in legno piccolo più coerenti rispetto ad analoghe prove fatte con fiano e greco. Senza dimenticare la media di vendemmie tardive, passiti e vini dolci da falanghina, anche qui regolarmente superiore a quella che si riscontra in Campania su altri vitigni.
Data l’ampiezza del territorio in cui è presente, non è possibile chiaramente delineare un profilo espressivo standard dei vini a base falanghina, ma c’è sicuramente un carattere varietale che ricorre in queste tipologie. Si presenta di solito con un giallo paglierino, spesso scarico e con connotazioni verdoline, un naso dolce e delicato di stampo soprattutto floreale e fruttato, mediterraneo e tropicale, con qualche sfumatura lievemente vegetale. Ha tendenzialmente una struttura gustativa agile e beverina, più rotonda in alcuni casi, gradevolmente acidula in altre.
* Elaborazione dati Agea 2008, riferiti alle dichiarazioni delle superfici vitate presentate dai conduttori