Continuiamo il nostro piccolo viaggio-promemoria tra le più sorprendenti bottiglie campane nate nelle cosiddette “annate minori”. Vini che, come sottolineato, non soltanto hanno dimostrato di superare i limiti dei rispettivi millesimi, ma rappresentano addirittura alcune delle migliori riuscite in assoluto per i loro artefici.
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Colli di Lapio – Fiano di Avellino 1996
Non è una bottiglia agevole da recuperare, ma qualche ristoratore illuminato della provincia, e non solo, in carta ce l’ha ancora e come si dice in questi casi il gioco vale la candela. La 1996 fu un’annata capricciosa, con continui cambiamenti di temperatura tra agosto e ottobre, precipitazioni intense a settembre e tanta variabilità di condizioni in vigna.
A Lapio le cose andarono un po’ meglio e Clelia Romano con la famiglia ne tirò fuori un’autentica gemma, tra le più preziose della sua storia ormai ultraventennale. Il terzo riassaggio in pochi anni (l’ultimo prima dell’estate) racconta innanzitutto di una sinfonia aromatica giocata su ricordi marini e iodati, completati da profonde nuances agrumate e speziate di pompelmo e cumino. In bocca è ancora acuminato come una spada, illuminato da un’acidità gustosa e integrata, che si allunga in una fantastica progressione finale di cioccolato bianco e camomilla.
Galardi – Terra di Lavoro 1996
Nonostante le oggettive difficoltà del millesimo, a cercar bene ci sono eccome dei ’96 campani ancora oggi perfettamente in forma, tutti da godere. Tra i rossi il pensiero va immediatamente al Terra di Lavoro di Galardi, blend di aglianico con saldo di piedirosso prodotto a San Carlo di Sessa Aurunca, che è stato uno dei primi cult wine internazionali della regione.
Una versione in qualche modo “atipica”: se il suo marchio di fabbrica è notoriamente concentrato nell’esuberanza delle note affumicate e nell’imponente volume gustativo, questo è forse il meno Terra di Lavoro di sempre, tutto scheletro e finezza. Una “diversità” stilistica peraltro più volte riscontrata anche su altri ’96 firmati da Riccardo Cotarella, dal Montiano al Montevetrano, interpretati con un tocco arioso e rilassato solo raramente ritrovato successivamente nelle sue etichette di punta.
Il Terra di Lavoro ’96 si apre netto e deciso tra sensazioni di lampone e crema di cassis, pepe rosa e talco mentolato, con un sottofondo elegantissimo di cacao amaro. Avvolgente e teso, al palato libera la progressione dell’aglianico che significa sapore, nerbo e un finale interminabile di sigaro, puntellato da tannini di classe.
Casa D’Ambra – Ischia Biancolella Tenuta Frassitelli 1995
Anche in questo caso per recuperarlo bisogna essere disposti a partecipare ad una vera e propria caccia al tesoro. Perché l’idea del bianco da invecchiamento è ancora qualcosa di profondamente estraneo nella cultura di operatori e consumatori, non solo in Campania, figurarsi poi se abbiamo a che fare con un biancolella ischitana.
Ma il Tenuta Frassitelli di Casa D’Ambra non è un biancolella qualunque, è uno dei simboli dell’Isola Verde, con la sua monorotaia e le terrazze incastrate tra il mare e il monte Epomeo. La 1995 fu una vendemmia difficile anche nei dintorni di Forio, fresca e tardiva, ma il riassaggio scompagina tutte le teorie sulle prospettive evolutive dei bianchi campani. Cera d’api, legno antico, pesca noce, finocchietto selvatico, il quadro aromatico disegna un’irresistibile altalena di suggestioni giovanili e terziarie, prima di liberare nel sorso un’energia salmastra quasi furiosa. Un vino completo per tessitura, spalla e complessità.
Vadiaperti – Fiano di Avellino 1994
Per l’annata 1994 in Irpinia vale un po’ il discorso già fatto a proposito della 1996: andamento meteorologico fortemente sincopato, estate tendenzialmente fredda e piovosa, difficoltà di maturazione in vigna e vini ben poco armonici e godibili nelle prime fasi. Dopo vent’anni, però, spuntano fuori bianchi stupendi come il Fiano di Avellino di Vadiaperti: grazie alle ingenti scorte custodite da Raffaele Troisi, abbiamo avuto modo di stapparne parecchie in questi anni, trovate regolarmente ad alto livello.
L’impianto aromatico può essere descritto addirittura primario per alcuni versi, tra pesca bianca, burro d’alpeggio, erbe di campo. Nessun accenno di terziarizzazione anche al palato, che si dipana col suo incedere vivido e nervoso in un finale di grande purezza, con netti ricordi di pompelmo rosa. Con un plus di materia sarebbe immenso, ma direi che ci possiamo accontentare così.
Molettieri – Taurasi Vigna Cinque Querce 1992
Ci sono vini che sembrano nati appositamente per scardinare ogni schema, certezza, ordine precostituito. Se riuscite a reperirlo (citofonare Oasis a Vallesaccarda, per esempio) conservatelo per una di quelle occasioni in cui condividete il desco con superesperti onniscienti e infallibili. Servitelo alla cieca e godetevi lo spettacolo: ne sentirete di tutti i colori e solo dopo un lungo giro a qualcuno verranno in mente le parole aglianico, Taurasi, Montemarano, Salvatore Molettieri.
Complice un’annata dal profilo decisamente jazz, con autunno piovoso dopo un’estate calda, il Vigna Cinque Querce 1992 è oggi quanto di più lontano si possa immaginare dal cliché stilistico di potenza infuocata, perfino violenta, a cui ci ha abituato la famiglia Molettieri in questi anni. Pinotteggiante, verrebbe da dire, e non è soltanto un ossimoro provocatorio: frutto chiarissimo appena colto, erbe fresche e balsamiche, speziatura carnosa, il tutto amplificato in un sorso delicato e progressivo, sorretto in scioltezza da una elegante salinità, un tannino fuso e un lungo finale piccante.
Mastroberardino – Taurasi Riserva 1980
Se il Taurasi Riserva 1968 di Mastroberardino (e le sue declinazioni nei tre cru Piano D’Angelo, Castelfranci e Montemarano) è il totem campano per eccellenza, la Riserva 1980 può essere considerata come il simbolo più bello di tutti i vini nati nelle annate difficili, senza limitarci alla regione. Non solo per l’andamento stagionale, già di per sé non favorevole per i repentini sbalzi termici estivi e autunnali, abbinati a forti temporali, quanto per le condizioni in cui questo vino mosse i primi passi. Era stata completata da pochi giorni la raccolta quando alle 19:34 di domenica 23 novembre l’Irpinia, e buona parte del sud appenninico, fu devastata dal più terribile sisma della sua storia recente. Una scossa di magnitudo 6,9 in scala Richter, che causò quasi 3.000 morti, circa 9.000 feriti e oltre 280.000 sfollati, facendo sentire i suoi effetti ben oltre quegli interminabili istanti di terrore.
La cantina di Atripalda divenne uno dei tanti centri di accoglienza improvvisati e non ci fu modo di controllare modalità e temperature di fermentazione, ulteriormente complicate dall’ondata di freddo e neve che seguirono i giorni del sisma. Non potevano esserci premesse più negative, insomma, eppure quel vino a distanza di 34 anni è ancora qui con noi, vivo e vegeto, testimonianza liquida di quella fierezza, di quell’orgoglio, di quella caparbietà che la gente irpina seppe trovare per tirarsi su, grazie anche all’impegno di tante persone speciali, arrivate da tutta Italia per aiutare.
Non è per caso che la Riserva 1980 sia sempre presente nelle verticali più profonde dedicate al proprio Taurasi dalla famiglia Mastroberardino: magari non risulta il più complesso, fine o persistente in queste degustazioni, ma ogni volta regala un brivido che non è possibile restituire con le parole. Un pezzo di storia, un monumento in bottiglia che il tempo non riesce a scalfire, molto più che un’etichetta a cui appiccicare una nota o un punteggio. Perché il vino, anche se a volte qualcuno sembra dimenticarsene, non è soltanto teoria, scienza e dati analitici. E chi non è in grado di capirlo, dal nostro punto di vista si perde il meglio.