L’altra sera ero seduto in un ristorante posillipino di Napoli. Cucina di mare, ovviamente. Guardo la carta dei vini; trecento etichette circa raccolte in una ventina di pagine. Ci sarà sicuramente qualcosa da scegliere, mi dico. Circa la metà dei vini è segnalata alla voce Rossi. Per la precisione, 137 etichette.
Va bene, abbiamo sdoganato il rosso sul pesce e poi, come si dice, vivi e lascia vivere, giusto? Ma, istintivamente, guardo gli altri tavoli alla ricerca di coloro che riescono a ordinare una bottiglia di Amarone per accompagnare una spigola all’acquapazza o una bottiglia di Taurasi per l’impepata di cozze. I gusti so’ gusti, no?
E cosi sia.
Decido di giocare in casa. Non bastassero le autorevoli voci che lo hanno già detto innumerevoli volte, lo ripeto: anche per me oggi la Campania dei vini è tutta bianchista. E allora, mentre dal menu scelgo qualche piatto, mi dirigo sicuro, sfogliando le pagine della carta dei vini, alla sezione bianchi nostrani.
I vini non mancano. Sono ben divisi per vitigno e zona di appartenenza. Sannio, Campi Flegrei, Isole e via così. C’è solo un unico problema. Le annate. Duemilatredici, duemilatredici, duemilatredici. Vuoi vedere che appena ordino un vino il cameriere mi porta sei calici, altrettante bottiglie coperte e mi tocca assaggiarli in batteria e “faticare”?
Ok, certo, per un verso sono contento per il ristoratore. Qui il vino gira, lo si compra e lo si vende, ma nonostante sia in “visita-lavoro”, un minimo di piacere lo vorrei provare, e di bermi un vino appena fatto, nervoso, dal profilo olfattivo ancora segnato dagli aromi post-fermentativi, non ho voglia.
Ieri ho letto su Slowine un articolo di Giancarlo Gariglio (link ) che metteva in relazione vini e prezzi delle uve, tra questi c’era anche il fiano. E’ da un bel po’ che ci penso. Ormai, senza tema di smentita, possiamo dire che il Fiano di Avellino è uno dei principali bianchi italiani e, di conseguenza, mondiali. Però le uve ad Avellino e dintorni costano 0,60 – 0,70 centesimi di euro al chilo. Antonio Lubrano avrebbe detto: la domanda nasce spontanea. Qualche volta andrebbero bene anche delle risposte, però.
A proposito di risposte, alla fine, al ristorante, grazie a Dio c’era una bottiglia di duemiladodici. L’unica: il Fiano di Avellino di Rocca del Principe. Una delle poche aziende che propone sul mercato il Fiano con un anno di ritardo. Il vino è squisito. Leggiadro.
Proprio ultimamente ho avuto modo di assaggiare quasi tutti i campioni della denominazione che sono appena entrati, o entreranno prossimamente, in commercio. C’è ancora qualche duemiladodici, per fortuna. Oltre quello di Aurelia Fabrizio e Ercole Zarrella c’è quello di Pasqualino Di Prisco, solare e profondo, e quello di Ciro Picariello, di cui aspetto di assaggiare il nuovo cru “Summonte 100%”.
Ma in tema di risposte, ce n’è una che vorrei avere da qualche giorno. Riguarda La Congregazione (sic!) di Villa Diamante, proprio del duemiladodici, di cui abbiamo già parlato in queste pagine (link). Con tutte le variabili che ci possono essere, se il vino è lo stesso che ho bevuto io l’altro giorno, avrei da chiedere qualcosa ai signori della Commissione per la Certificazione Docg che lo hanno estromesso dalla denominazione.
Facciamo che ci sediamo intorno ad un tavolo e mi spiegate?
Ovviamente il vino lo porto io. Uno dei più buoni che Antoine Gaita abbia mai prodotto.