Quello che segue è un estratto della relazione presentata lo scorso agosto a Castelvenere (BN) in occasione di uno dei convegni inseriti nel programma “In Vino Veritas”. Mi era stato chiesto di proporre una riflessione sulle tendenze che si profilano nel consumo dei vini di qualità, con particolare riferimento alle tipologie “quotidiane” e al tempo stesso tradizionali. Ecco il nucleo centrale dell’intervento.
Troppe volte ci si dimentica che nel mondo del vino non sempre elementi come attenzione mediatica e riscontro commerciale vanno di pari passo. Basta considerare un unico dato: come spiega l’ultima ricerca di Censis Servizi del 2011, il 90% dei consumatori italiani acquista il vino in gdo (grande distribuzione organizzata) e non è disposto a spendere più di 3 euro per una bottiglia. Noi impieghiamo tantissime energie per ragionare su vitigni, zone, annate, stili, ma nel “mondo reale” le cose funzionano diversamente. E se pensiamo a questo, forse non dovremmo nemmeno iniziare la discussione.
Eppure ci sono delle tendenze che nascono in piccole nicchie, ma portano a risultati su scala assai più ampia, specie a lungo termine. Tutta la filiera della qualità, non solo nel vino, è legata a target molto ristretti in quantità, però i confini non sono così netti come li dipingiamo. Una cosa buona è una cosa buona: anche chi è abituato a gusti più standardizzati, di solito sa riconoscere un piatto, un prodotto, un bicchiere di livello superiore, e spesso ha solo bisogno di qualcuno che lo aiuti a capire il perché.
Gusto personale tra imprinting e influenze sociali
L’idea del “grande pubblico” porta a banalizzare una serie di concetti. Ed è un errore che fanno tanti operatori, spesso responsabili di due atteggiamenti opposti senza vie di mezzo:
1) provare a sfruttare la presunta ignoranza delle persone, partendo dal presupposto che la maggior parte di loro non capisce niente e al massimo è in grado di dire se desidera bere un bianco o un rosso;
2) prendersi talmente sul serio da far sentire continuamente il cliente sotto esame, appesantendolo con informazioni in quel momento inutili, finendo per allontanarlo a partire da un linguaggio astruso.
Si perdono di vista tutta una serie di cose che, come addetti ai lavori, produttori e appassionati, diamo per scontate. Ognuno di noi ha esperienza dell’amico che ti dice: «ho bevuto una falanghina, mi è piaciuta», ma che rimane a bocca aperta se tu gli chiedi il nome dell’azienda o dell’annata. Le distanze sono solo destinate ad aumentare se rinunciamo a spiegare ogni volta che di quella Falanghina che lui ha memorizzato ne esistono di diverse tipologie, che può cambiare l’etichetta, la cantina, la vendemmia. Non certo per insegnare delle nozioni fini a sé stesse, ma perché in questo modo quell’amico potrà continuare a trovare più facilmente delle opzioni vicine al proprio gusto, nel suo interesse. Perché gli esseri umani non sono stupidi: la storia umana si condensa in una continua ricerca del miglioramento delle proprie condizioni, una ricerca della felicità. Quando un uomo o una donna, di qualsiasi epoca, razza o cultura, si imbatte in qualcosa che gli dà piacere, la cercherà ancora e ancora, e difficilmente si accontenterà (salvo necessità) di un piacere inferiore.
L’errore più grande che si fa è quello di ridurre tutto ad una questione di gusti individuali. Il che è giusto da una parte, ma è altrettanto vero che i comportamenti di acquisto e consumo (non solo nel vino e nel cibo) sono legati a mille variabili dove entrano in gioco le relazioni sociali, la storia, la geografia, la cultura, e tanto altro ancora. Un gruppo di ricercatori dell’università di Bordeaux ha scoperto qualche anno fa che tutti gli esseri umani nascono con un preciso imprinting gustativo, un gusto di base che fa parte del proprio dna come il gruppo sanguigno, i tratti somatici, le predisposizioni fisiche, ecc. Questa sorta di salvadanaio sensoriale che abbiamo dalla nascita si posiziona in un’area molto particolare della corteccia cerebrale, vicina a quella in cui sono registrate le emozioni e i ricordi. Per questo motivo è un salvadanaio che si riempie e si svuota continuamente, ma soprattutto si trasforma incessantemente per tutta la vita. E’ uno dei centri più dinamici in assoluto del nostro cervello e questi continui cambiamenti si riflettono naturalmente a livello collettivo, sociale ed economico.
Il vino nell’Italia del secondo dopoguerra
La storia del vino è profonda quanto quella dell’uomo, specialmente in determinate culture come quella mediterranea. Tanto ci sarebbe da dire, ma ai fini della nostra riflessione possiamo limitarci a quello che è accaduto in Italia nell’ultimo cinquantennio, o poco più. Anche stavolta partiamo da un dato: negli anni ’60 si consumavano circa 100 litri di vino a persona in un anno, oggi siamo a circa 40, con tendenza continua al ribasso.
Si beveva più del doppio in quantità rispetto ad oggi non solo per questioni di cultura e tradizione, ma perché il vino aveva anche una vera e propria funzione alimentare. Il vino era presente nel pasto molto più di adesso, ma veniva consumato anche come “merenda”, specialmente da chi faceva lavori manuali, nei campi e non solo. Nonostante il boom economico ed industriale, infatti, nel secondo dopoguerra il settore primario ancora impiegava quasi la metà dei lavoratori italiani. La quota maggioritaria del vino che si consumava era rappresentato da sfusi e vino “comune”, mentre i vini di pregio, magari legati a specifiche denominazioni, rappresentavano una fetta decisamente marginale.
L’immagine stessa del vino italiano viveva in una sorta di limbo tra due sentimenti polarizzati:
1) il racconto popolare, nei contenuti ma non nel linguaggio (alto), che si poneva in sintonia con la tradizione più vera e le radici più profonde, grazie anche a narratori straordinari come Veronelli, Soldati, Brera e compagnia;
2) il vino come cosa “vecchia”, più che altro un affare per ubriaconi da osterie, tanto per semplificare.
Una divaricazione che si andò progressivamente accentuando negli anni ’70 e ’80 per una serie di ragioni: 1) il vino non era visto come un settore cool, ma anzi come un retaggio di un’Italia agricola superata dal progresso; 2) immagine all’estero non certo positiva (il Chianti nei fiaschi di paglia, le cisterne, poca conoscenza dei vini di alto pregio, quelli capaci di confrontarsi con i migliori francesi); 3) lo scandalo del metanolo del 1986 (l’opinione pubblica scopriva che col vino si poteva anche morire); 4) cultura salutista in voga negli anni ’80, che trovava coerente sponda nella nouvelle cuisine e nella cucina macrobiotica; 5) spinte lobbystiche provenienti da altri settori concorrenti, intenzionati ad approfittare delle difficoltà del prodotto vino (vedi ad esempio l’enorme battage sulla birra che ha caratterizzato tutti gli anni ‘80).
Proprio nel momento più critico per il vino italiano, si gettarono però le basi per una fase completamente diversa, quella che ha portato ad un vero e proprio boom del settore:
1) distinzione più chiara e visibile tra il segmento dei vini “comuni” e quelli di pregio;
2) graduale affermazione del mantra “bere meno, bere meglio”;
3) nascita di un’editoria specializzata, pensata non soltanto in funzione di documentazione umanistica e socioculturale, ma impostata con l’obiettivo di fornire veri e propri consigli per gli acquisti a operatori e appassionati (Gambero Rosso e altri a seguire);
4) ingresso nel settore di tutta una serie di figure nuove, nascita di progetti imprenditoriali sviluppati da personaggi provenienti da altri mondi decisamente più trendy (moda, finanza, servizi, industria) che si affiancavano alle famiglie nobiliari agricole, alle piccole aziende familiari, alle cooperative e ai grandi imbottigliatori, che fino a quel momento avevano costituito la spina dorsale del vino italiano.
I magnifici anni ‘90
Arriviamo quindi agli anni ’90 che, semplificando, possono essere considerati come l’epoca d’oro del vino italiano. Sono nate migliaia di nuove aziende, ma soprattutto è aumentato in maniera esponenziale il numero di etichette premium, realizzate con progetti di vigna e cantina innovativi e proposte a prezzi non certo abituali per il “consumatore comune”.
Uno sviluppo che ha portato al successo di un’idea del vino molto diversa rispetto a quella radicata fino ad allora. Il vino di qualità doveva avere dei parametri ben precisi: partire da un’agricoltura specializzata, avvalersi di strumenti tecnici ed enologici moderni (fermentazioni, malolattiche, barrique), presentare un certo profilo organolettico, prima di tutto esente da difetti.
I vini “quotidiani” venivano in qualche modo snobbati in favore dei cosiddetti “vini evento”, come li ha felicemente definiti Alessandro Baricco nel suo saggio “I Barbari”, pensati nell’ambizione di stupire critici, clienti e consumatori, seguendo un modello difficile ma apparentemente alla portata di tutti. Il grande vino doveva essere colorato, profumato, consistente: una concezione più che altro “quantitativa”, che poteva essere realizzata a prescindere da una determinata tradizione territoriale e varietale.
Anche in zone fino ad allora vergini si potevano fare grandi vini, questo uno dei messaggi centrali, purché le vigne fossero gestite in un certo modo (fino all’esasperazione delle rese ad un grappolo per pianta) e ci fosse un bravo enologo in cantina. Vini bianchi con struttura e alcol da vini rossi, vini rossi potenti, quasi masticabili, preferibilmente aiutati dal contributo tangibile del legno piccoli. Vini per le grandi occasioni, da degustare più che da bere, vini che identificavano uno status ben preciso: le bottiglie non erano più una cosa da ubriaconi ma uno dei simboli del life style, del sapersi godere la vita.
Molti di questi vini venivano prodotti con varietà aliene alla tradizione, perché chi voleva entrare da protagonista nel settore naturalmente si rifaceva alle esperienze di successo, guardando prima di tutto a quello che succedeva in Francia, e non solo. I grandi vini del mondo erano fatti perlopiù con merlot, cabernet, syrah, chardonnay, sauvignon e tanti cercavano di imitare quel modello per affermarsi nelle considerazioni di critica e mercato. Anche perché questi vitigni dimostravano di adattarsi un po’ a tutte le condizioni, conservando una propria riconoscibilità varietale, che era vista come elemento di pregio. Un modello “internazionale”, dunque, che veniva preso a riferimento anche in quelle zone legate ad una piattaforma autoctona più consolidata (vedi Piemonte, le diatribe tradizione-innovazione sul nebbiolo di Langa, ad esempio).
C’è un altro aspetto da considerare: il successo di questi vini si accompagnava ad una prima significativa crescita delle esportazioni. Diventavano sempre più importanti i mercati di paesi con abitudini di acquisto e consumo molto diverse da quelle dei popoli mediterranei. Nazioni, specialmente di cultura anglosassone ma non solo, dove il vino veniva e viene tuttora spesso consumato fuori pasto e comunque non necessariamente in accompagnamento con il cibo. A maggior ragione, dunque, le aziende mettevano il loro massimo impegno su vini in qualche modo “autosufficienti”, con il massimo equilibrio possibile tra le varie componenti, con pochi spigoli, anzi al contrario, piuttosto dolci e rotondi. Vini da poter stappare come aperitivo prima di cena a fine serata guardando un film. Non più il vino da mangiare nel senso di alimento e di apporto calorico, ma vino da mangiare perché capace con la propria presenza organolettica quasi di sostituire il cibo stesso.
Come detto erano questi i vini che si affermavano nella considerazione di stampa e operatori e il loro prezzo il più delle volte elevato non veniva visto come un problema ma paradossalmente come un’ulteriore garanzia di qualità. Nascevano enoteche, i ristoranti riempivano i propri magazzini con vini premiati e costosi, le aziende facevano grossi investimenti, e a questo concorrevano anche una serie di fattori esterni. Da una parte bisogna considerare che quello era un momento molto felice da un punto di vista economico e finanziario: l’America di Clinton, pil dei paesi occidentali in crescita, ottimismo, buona capacità di spesa. Dall’altra il vino veniva percepito da diversi attori della filiera quasi come un bene d’investimento ad alto tasso di redditività: non solo le aziende, ma anche enotecari e ristoratori spendevano tanto con l’idea che la loro cantina poteva solo rivalutarsi nel tempo e che quindi non c’era fretta di vendere.
Tra reazione e rivoluzione
Uno scenario completamente ribaltato nel decennio successivo, quello che ci porta ai giorni nostri. Nel volgere di pochi anni le parole d’ordine sono diventate quasi l’esatto contrario di quelle che hanno dominato gli anni ’90.
Oggi lo stereotipo del “vino perfetto” è un cru prodotto in una singola vigna con una varietà autoctona tradizionale, maturata in acciaio in caso di bianco, in botte grande in caso di rosso, magari senza l’ausilio di lieviti selezionati, senza chiarifiche o filtrazioni, meglio ancora se da agricoltura biologica o biodinamica.
Barrique e vitigni internazionali diventano come rovescio della medaglia simbolo di omologazione, mentre vengono presi a riferimenti virtuosi quei produttori che adottano protocolli “naturali” e puntano su una forte personalizzazione delle proprie interpretazioni.
Si sono prodotti effetti evidenti sul modello organolettico “vincente”: vini meno strutturati, con meno alcol, più acidità, mineralità come elemento distintivo. Come si è detto più volte, si è passati dalla grammatica alla letteratura: gradualmente diventavano fondamentali per il vino di pregio parametri come tipicità, riconoscibilità di territorio più che di vitigno, longevità, unicità. Un fenomeno non soltanto italiano, ma che ha interessato il comparto a livello mondiale, anche in mercati insospettabili da questo punto di vista.
A questo ha contribuito anche un’inedita fase mediatica, che ha visto un moltiplicarsi delle voci, aumentare gli spazi di confronto e discussione grazie anche ai nuovi media.
Tutto questo accadeva in una fase economica di segno praticamente inverso a quella che aveva accompagnato il boom negli anni ’90. Dal 2001, e ancor di più dal 2008, le crisi finanziarie susseguitesi a livello globale hanno pesato in maniera fortissima sulla filiera, determinando molti cambiamenti sul piano produttivo e commerciale.
Il panorama vitienologico italiano non è mai stato così ricco, variegato e competitivo sul fronte dell’identità espressiva e della consapevolezza stilistica, ma tante aziende sono in enorme difficoltà. In Italia si va sempre meno al ristorante, si compra sempre meno vino in enoteca, si beve sempre meno in generale, complici anche le nuove leggi legate alla sicurezza stradale. Un grande circolo vizioso che porta ad insostenibili ritardi nei pagamenti, meno soldi da investire in forza lavoro e promozione, prezzi non remunerativi per i viticoltori, e tanto altro. Problemi interni non sufficientemente compensati dall’export, che resta comunque l’unico fattore di tenuta (in crescita negli ultimi anni, nonostante la crisi) e l’unica vera chance di crescita per i produttori italiani.
C’è un risvolto della medaglia: gli operatori si sono resi conto sulla propria pelle che il vino non è un bene di investimento come un titolo finanziario, che le etichette devono girare ed è possibile costruire delle cantine profonde con le etichette più blasonate solo dove le spalle sono coperte da un punto di vista economico o dove c’è passaggio di miliardari con elevate capacità di spesa. Essendo chiaramente eccezioni, tutti gli altri si sono trovati a fronteggiare le nuove sfide sopperendo con creatività e ampliamento delle conoscenze.
Tanti ristoratori per esempio vedono premiata la loro scelta di mettere a punto delle carte dei vini più piccole ma paradossalmente più competitive: meno vini ma più coerenti con il tipo di cucina proposta, più vicine al territorio dove si inseriscono, perché questo consente di avere sott’occhio tutto il meglio che accade lì, scoprire nuovi protagonisti, far ruotare le proposte di mescita, pescare le opzioni più favorevoli dal punto di vista del rapporto qualità-prezzo.
Non è solo un fatto congiunturale ma anche strutturale: il turismo enogastronomico resta un settore di nicchia per numero di visitatori che muove, ma è uno dei più importanti per valore e ricadute, oltre che uno dei pochi in salute. Ed è sempre più evidente che chi si sposta per passare qualche giorno in una zona, 9 volte su 10 lo fa per mangiare e bere i prodotti di quella zona. Che non devono essere necessariamente straordinari, se la zona ha da offrire altre eccellenze in termini paesaggistici, storici, culturali, ambientali, e così via.
Tutti questi elementi insieme determinano una serie di cambiamenti molto interessanti. C’è sempre meno attenzione per i “vini evento” di cui si parlava prima, specie quelli che si sono dimostrati nel tempo non all’altezza delle promesse, faticosi da bere, non in grado di evolvere positivamente, e che non a caso sono rimasti sugli scaffali e nelle cantine dei ristoranti per anni. Mentre cresce esponenzialmente l’interesse per tutta una serie di tipologie precedentemente “snobbate” o comunque considerate “minori”. Il più delle volte vini da varietà autoctone, in alcuni casi quasi salvate dall’estinzione, interpretate non tanto come “cavalli da concorso” ma come bottiglie da mettere a tavola e godere col cibo senza tanti pensieri.
Da una parte si modifica l’idea stessa del “grande vino”, meno materica e più culturale, dall’altra c’è una fetta importante di appassionati (quelli che non rinunciano ad una buona bottiglia nemmeno in questo momento, facendo magari sacrifici su altre cose) che cercano appositamente tipologie che non sono e dichiaratamente non vogliono essere “grandi vini”, almeno secondo la concezione classica, ma si rivelano bottiglie giuste da stappare al momento giusto.
Ci sono numerosi esempi di questi presunti vini minori, o di cui comunque quasi non si parlava fino a poco tempo fa, che hanno visto negli ultimi anni una crescita esponenziale in termini di attenzione e consumo. Il Rossese di Dolceacqua in Liguria, i rossi dell’Alto Piemonte (Gattinara, Ghemme, Boca, Lessona, Bramaterra), il grignolino e il pelaverga in Langa e in Monferrato, i Lambrusco emiliani, la Schiava in Alto Adige, il Rosso di Montalcino, i sangiovese delle zone più alte del Chianti Classico, i ciliegiolo umbri e della Toscana meridionale, il gaglioppo in Calabria, il frappato in Sicilia, i cannonau sardi o, per restare nella nostra regione, i vini a base piedirosso, specie dell’area partenopea (Vesuvio, Penisola Sorrentina, Campi Flegrei).
Vini a volte anche molto diversi tra loro ma accomunati da un’espressività gioviale, estroversa, accattivante, giocata sulla golosità del frutto e su un corpo snello e dinamico, semplici senza essere banali, al contrario: capaci nelle migliori versioni quasi di sovvertire le presunte gerarchie territoriali. Vini il più delle volte dotati di un’alcolicità contenuta e una struttura da peso medio agile più che da body builder, dove l’eventuale deficit di spalla è compensato da uno scheletro acido e sapido rigoglioso e scattante. Vini perfetti per la tavola, vini appunto PER mangiare anziché DA mangiare.
Un movimento in cui si possono inserire molto più di quanto fatto finora i migliori rossi della provincia di Benevento, a partire da quelli a base sanbarbato, l’ormai ex Barbera del Sannio. Una tipologia che corrisponde perfettamente all’identikit, con le sue accattivanti note aromatiche di frutti di bosco e spezie, corredate da striature floreali e delicatamente vegetali, ad anticipare un sorso leggero e nervoso, con tannini delicati ma presenti e tanta capacità pulente. Un rosso da “merenda” nel senso più bello del termine.
C’è tanto spazio per vini così, anche nel variegatissimo distretto campano: a patto, come insegna il “caso piedirosso”, che vengano interpretati per essere quello che sono e non per quello che vorrebbero essere. Vale la pena di insistere: ogni fase storica ha le sue tipologie predilette e, anche se il treno sta già passando, i rossi più “semplici” del Sannio possono ancora salire al volo.
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