Sull’ultimo numero di Slow, la rivista di Slow Food destinata a tutti gli associati, Vincenzo Ercolino traccia, in un articolo da lui firmato, una breve storia della viticoltura irpina. Ercolino, in passato figura di spicco dell’imprenditoria viticola campana, individua nel sisma del novembre 1980 un drammatico momento di presa di coscienza da parte della comunità locale:
«Il terremoto dell’Irpinia», sottolinea, «ha sancito una discontinuità epocale e ha fatto emergere – pur nella consapevolezza della tragica esperienza – nuovi valori e nuovi protagonisti».
In sostanza lo shock del cataclisma ha liberato, secondo l’autore, le inclinazioni sopite di un’intera generazione che finalmente, seppure in modo traumatico, ha potuto orientare il proprio destino. In virtù di questa, dagli anni Ottanta in poi si è affermata una nuova generazione di vignaioli capace di riportare ai fasti antichi, citati dall’autore all’inizio dell’articolo, l’intera provincia.
Se da una parte è innegabile che la viticoltura avellinese abbia davvero saputo risorgere e affermare in poco più di un ventennio tutta la propria vocazione, ritengo che la strada verso l’eccellenza sia stata intrapresa solo recentemente. Molto più tardi rispetto a quegli anni Ottanta in cui pochissime aziende, tra le quali Mastroberardino, potevano vantare una produzione di alto livello. Non ero, nemmeno, tra quelli che celebravano la rinascita enologica del distretto negli anni Novanta e primi Duemila. Mano a mano che il potenziale enologico della provincia di Avellino veniva in quegli anni palesandosi, attirando l’interesse di stampa, appassionati e mercanti, la reale identità di questi versanti vitati veniva a mio avviso in molti casi sacrificata, nascosta, oppressa dalla confezione enologica così in voga in quegli anni.
Questo stato di cose ha perdurato per molto tempo, complice anche una scarsa consapevolezza da parte dei produttori. Ciò che, a mio giudizio, ha definitivamente scardinato questa fase per alcuni versi “limbica” è stato il manifestarsi del talento di alcuni vignaioli, capaci di proporre alcuni vini di straordinario valore, che hanno consentito di accostare, in modo reale, l’Irpinia alle altri grandi terre di vino italiane, e non solo.
La prima volta che mi sono imbattuto nella parola talento riferita alla viticoltura è stato grazie al libro di Sandro Sangiorgi, L’invenzione della gioia, pubblicato da Porthos Edizioni. Sono debitore all’autore del libro di questo concetto, per quanto mi riguarda così pertinente nel campo enologico, perché da allora l’ho assimilato nel mio lessico critico e adoperato per descrivere l’origine di vini dalla coinvolgente personalità, frutto di una viticoltura autorevole e condotta in prima persona.
Bene, credo che il talento dimostrato da alcuni vignaioli irpini abbia rappresentato il cortocircuito necessario a far vibrare la scena enologica, non solo provinciale, attraverso una visione alternativa e strettamente personale della viticoltura. Proprio l’insofferenza verso l’omologazione, dimostrata ad esempio da aziende come Pietracupa, Vadiaperti o Luigi Tecce, solo per citarne alcuni, ha ispirato vini che esulavano in qualche modo dal contesto produttivo a loro contemporaneo. Esibendo una personalità per certi versi spiazzante ma dai connotati fortemente identitari, in grado di amplificare la qualità attraverso il carattere dell’appartenenza. In questo risiede secondo me la vera affermazione della qualità enologica dell’Irpinia: aver compreso che la vocazione indiscussa del proprio territorio non può fare a meno di una coscienza produttiva matura, certamente non slegata da una corretta enologia, ma dedita all’ascolto del territorio e il più possibile indipendente nell’interpretarlo.
Se gli anni Ottanta hanno rappresentato, dunque, il tempo del ritorno della viticoltura irpina sullo scenario internazionale, solo nell’ultima fase un’affermata consapevolezza produttiva, fortunatamente in estensione in tutta la regione, dimostra di avere la cifra necessaria per una perentoria affermazione dei vini campani al vertice dell’enologia italiana.
Sono totalmente d’accordo con te, caro Fabio. Non è possibile fare grandi vini senza avere un’idea di ciò che il vignaiolo ama trovare nel bicchiere. Vale la pena di ragionarci ancora, oggi che la correttezza tecnica è un dato acquisito e le chiavi della personalità e del carattere sono più centrali che mai. [pdc]