Alzi la mano chi non ha mai letto o sentito l’espressione «l’aglianico è il nebbiolo del sud». O magari la sua versione più orgogliosa e campanilistica, che pretende una riformulazione del tipo «ma no, semmai è il nebbiolo che è l’aglianico del nord».
C’è sempre una forzatura quando si paragonano zone geograficamente e culturalmente così lontane, eppure il tormentone coglie alcune affinità reali tra due dei più importanti vitigni italiani da invecchiamento. Nell’indole e nella tempra, più che nella didascalica sovrapposizione di elementi agronomici ed espressivi.
Per una volta, però, le eventuali affinità organolettiche le lasciamo da parte, il punto è un altro: se accettiamo la lezione per cui aglianico e nebbiolo appartengono in qualche modo alla stessa “grande famiglia”, forse vale la pena chiedersi se e come questa vicinanza caratteriale si trasferisca sulle rispettive filiere produttive e commerciali.
Partiamo dai freddi numeri: secondo i dati dell’Unione Italiana Vini riferiti all’anno 2010, in Italia sono registrati circa 10.000 ettari di aglianico, concentrati principalmente tra Campania, Basilicata e Puglia, a fronte dei circa 6.500 ettari di nebbiolo, coltivati in massima parte tra Piemonte, Lombardia, Valle d’Aosta e Sardegna. Cifre che praticamente si ribaltano se consideriamo le produzioni dei due vitigni rivendicate attraverso le denominazioni di origine, e in particolare quelle più classiche e prestigiose. Le bottiglie commercializzate di Barolo e Barbaresco, per esempio, sono oltre 10 milioni, mentre non arriviamo nemmeno alla metà sommando le fascette di Aglianico del Vulture, Aglianico del Taburno, Taurasi, Falerno del Massico Rosso, e così via.
Una differenza di posizionamento tra le due varietà, che sembrerebbe incoraggiare molti dei discorsi che purtroppo saltano fuori quando dalle nostre parti si ragiona sull’atavico dualismo tra aglianico e nebbiolo.
«I Barolo costano un sacco di soldi e non valgono il loro prezzo», «i grandi vini delle Langhe sono pochi e poi c’è un sacco di roba mediocre», «i nostri aglianico non hanno nulla da invidiare ai nebbiolo ma costano di meno»: di frasi così ne ho sentite (e lette) a ripetizione in questi anni. Fermo restando che ognuno è legittimamente libero di preferire ciò che vuole, non si può fare a meno di pensare che chi sostiene posizioni del genere probabilmente non ha avuto modo o voglia finora di approfondire davvero la conoscenza dei distretti piemontesi, da un punto di vista critico ma anche da quello economico. Sono decisamente lontani i tempi in cui Barolo e Barbaresco vivevano una crisi talmente profonda che qualche cantina era costretta a “regalarli” in abbinamento con altri rossi assai più ricercati prima del boom di fine anni ’80, Barbera e Dolcetto in testa.
Al di là delle diatribe in buona parte superate tra “tradizionali” e “modernisti”, il distretto langarolo può contare oggi su una rosa di interpreti di qualità estremamente ampia e variegata. Ci sono almeno una cinquantina di produttori e un centinaio di etichette (considerando i vari cru) costantemente in grado di declinare l’eccellenza nebbiolesca. Vini che, peraltro, riescono sempre di più a trovare una doppia dimensione di rigore, austerità, longevità, ma anche di brillantezza espressiva e leggibilità giovanile. E possiamo veramente sostenere che la nazionale dell’aglianico riesca al momento a pescare da un gruppo altrettanto folto e multidimensionale? Quanti dei migliori rossi di Taurasi, Taburno, Vulture sanno coniugare la loro indole più fiera con un tocco almeno in parte gourmand, suggerendo finestre di beva appena più ravvicinate dei consueti 10-20 anni?
Ma le argomentazioni più deboli di chi lascia regolarmente intendere che i nebbiolo sono sopravvalutati e gli aglianico sottovalutati sono quelle che riguardano i prezzi. Sono rivendicati come Barolo e Barbaresco vini come il Monfortino di Giacomo Conterno, il Crichet Pajé di Roagna, il Cà ‘d Morissio di Giuseppe Mascarello, che si contendono con il Brunello di Montalcino Riserva di Biondi Santi e l’Amarone della Valpolicella Riserva di Quintarelli la palma di etichetta italiana rossa più costosa, chi lo nega. Ma non appena ci muoviamo da quella dozzina di “mostri sacri”, scopriamo un mondo di buonissimi vini reperibili a prezzi decisamente abbordabili, con listini operatori in buona parte sovrapponibili a quelli di tanti rossi campani e lucani a base aglianico. Barolo e Barbaresco “base” che importatori e distributori riescono a comprare intorno ai 10 euro più iva, ma anche un’ampia serie di cru e selezioni prodotte in poche migliaia di bottiglie e vendute ai privati in una fascia compresa tra i 20 e i 30 euro.
Giusto qualche esempio, per fare nomi e cognomi: in una vendemmia come la 2010, per molti versi perfetta per chi cerca nebbiolo nervosi e saporiti, giocati su profumi chiari e strutture agili più che su calore e muscoli, ci portiamo via a circa 25 euro in cantina Barolo ormai trasversalmente riconosciuti di prima fascia come quelli di Claudio Fenocchio (con cru tra l’altro mitici come Bussia e Villero). Ce ne vogliono ancora meno per lo splendido Barbaresco Boito di Rizzi, che viaggia intorno ai 20 euro, come il meraviglioso Barbaresco Rabajà ’10 di Cortese o il serralunghiano Barolo Lazzairasco di Guido Porro. Si scende addirittura a ridosso dei 15 euro per i Barbaresco Basarin e Sanadaive dei fratelli Adriano e non si superano i 30 per grandi classici come il Barolo Brunate di Marcarini, il Monvigliero e il Gramolere dei fratelli Alessandria e di Giovanni Manzone, l’Acclivi di Burlotto e tanti altri.
Chiaramente le vecchie 40-50 mila lire non sono esattamente le cifre che identificano un vino quotidiano in senso letterale, ma se confrontiamo il livello medio, le punte e la reperibilità di questi vini con quelli di altri prestigiosi terroir, non è un’esagerazione affermare che la Langa sia uno dei migliori distretti mondiali, se non il numero uno, per quanto riguarda il rapporto qualità-prezzo sui vini rossi. Non mi vengono in mente molte altre zone con una tale concentrazione di etichette sopra la soglia di eccellenza proposte a questi prezzi, capaci di declinare le tante variabili territoriali e di invecchiare a lungo. Non la Borgogna, sicuramente, dove raramente si recuperano premier cru significativi sotto i 60-80 euro, ormai, e ce ne vogliono quasi sempre oltre cento per un grand cru, non necessariamente indimenticabile. E nemmeno Bordeaux, che ha preceduto di poco la Côte d’Or nell’esponenziale aumento dei listini, trainati dalla domanda di griffe mitiche esplosa nel far East asiatico da almeno un lustro. Tra i terroir storici forse solo il Rodano riesce ancora a proporre una ricca squadra di rossi gustosi e caratteriali nelle fascia di prezzo medio-bassa, ma anche qui si galoppa rapidamente verso le tre cifre quando entrano in campo le denominazioni e i vini più prestigiosi, dagli Chateauneuf du Pape ai Cote-Rotie, dai Cornas ai Saint-Joseph, passando per gli Hermitage.
Purtroppo, ed è un purtroppo da appassionato-compratore, ho l’impressione che la pacchia stia per finire e che questa sia un po’ l’ultima chiamata utile per chi vuole riempirsi la cantina di nebbiolo senza spendere una fortuna. Come sottolinea Giancarlo Gariglio, co-curatore di Slowine, in un interessante post di qualche giorno fa (link), critici ed operatori d’oltreoceano sembrano letteralmente impazziti per i Barolo 2010 e diverse aziende di Langa hanno già i magazzini vuoti dopo pochi mesi dal loro rilascio. Un boom che peraltro si registra in concomitanza con l’uscita sul mercato di una vendemmia che, come ricordato prima, non ha nulla dello stereotipo da “gusto americano”, al contrario. Non c’è mai stata tanta conoscenza e considerazione da parte degli appassionati stranieri rispetto ai nebbiolo più classici e territoriali. Durezze e spigoli compresi, tratti non così diversi da quelli molto spesso individuati come alibi per le difficoltà commerciali dei nostri aglianico.
Considerando i prezzi proibitivi raggiunti in tante zone francesi, è quasi inevitabile lo “sbarco” in massa tra le colline dei buyer e broker più attenti. Come inevitabile sarà un progressivo ritocco verso l’alto dei listini, già molto visibile sulle etichette più famose e richieste, ma che si riverserà molto probabilmente a cascata sull’intero “gruppone” di vigneron virtuosi.
Non è facile prevedere quello che accadrà dopo, se e come si creerà una nuova bolla speculativa che costringerà una consistente fetta di bevitori europei a guardarsi ulteriormente intorno. Di certo si profileranno ulteriori interessanti opportunità per i migliori rossi dell’Appennino Meridionale, a patto che sapranno finalmente dimostrare concretamente, nelle scelte stilistiche come in quelle commerciali, che il paragone tra nebbiolo e aglianico non è così campato per aria. Sapremo farci trovare pronti?