Arcobaleno

“Nuove” aziende crescono: Feudi di San Gregorio 2.0

Che ci sia una distanza a volte siderale tra la nostro piccola, piccolissima, cerchia di “addetti ai lavori” e il cosiddetto “mondo reale” non lo scopriamo certo oggi. Vale per tutti i settori e gli ambiti di interesse: ad ogni nuovo step di conoscenza e approfondimento, si modificano valutazioni, preferenze e temi di discussione, è assolutamente inevitabile. Sbaglia, però, chi pensa che superappassionati (di cinema, di musica, di enogastronomia) e “grande pubblico” siano due entità separate una volta e per sempre. Che lo si voglia o meno, lo scambio tra “fruitori distratti” e “monomaniaci”, passatemi la doppia semplificazione, è molto più fluido di quel che possiamo immaginare e focalizzare. Niente lo spiega in maniera tanto rapida ed efficace, secondo me, come la scena linkata qui sotto, tratta da Il Diavolo Veste Prada, film ambientato nel mondo della moda che valse alla straordinaria Meryl Streep una delle sue diciotto candidature all’Oscar. Mi scuso per la pessima qualità del video, ma purtroppo era l’unico disponibile su YouTube con l’estratto del dialogo in questione.

Il mondo del vino non sfugge a queste logiche e, tra i mille esempi possibili, forse ne basta uno. Se i dibattiti sul “naturale” fossero stati soltanto “onanismi da supernicchia”, come venivano rapidamente liquidati una decina di anni fa, ci sarebbero oggi così tante aziende rilevanti per dimensioni e volumi a porre l’accento sulle proprie produzioni “biologiche”? Oppure su progetti di vini “senza solfiti”? O, più in generale, su quelli nati attorno al concetto di “basso impatto”, risparmio energetico, salvaguardia ambientale e cose così? C’è spesso un’onda lunga, insomma, che si crea in ogni fase storica e scorre in maniera quasi sotterranea fino a quando si manifestano i suoi effetti su “larga scala”. Le si può ridurre a mode, tendenze, umori, ma sono processi che a volte incidono in maniera molto concreta sull’attività imprenditoriale, sugli indici macro-economici come sui singoli fatturati, i valori di brand, le pianificazioni strategiche, e tanto altro. Non è per nulla facile stabilirne con esattezza confini e forza, ma nel mondo del vino il passaparola è da tempo importante almeno quanto i flussi di comunicazione più lineari e guidati. A maggior ragione in epoca social, dove alcune parole chiave trovano modo di diffondersi viralmente, arrivando perfino a ribaltare completamente percezioni e gerarchie considerate per molti versi immutabili.

Se parliamo di vino campano, il case history per eccellenza dal punto di vista delle oscillazioni di immagine è senza dubbio quello rintracciabile nell’avventura di Feudi di San Gregorio *. Sintetizzando brutalmente, potremmo dire che la corazzata di Sorbo Serpico ha vissuto il suo momento d’oro mediatico negli anni paradossalmente più discutibili sotto il profilo produttivo. E viceversa: nonostante quella che si configura come una vera e propria rivoluzione progettuale, agronomica e stilistica, avviata già da qualche anno, l’azienda irpina riesce oggi con fatica ad incrociare la stessa attenzione e curiosità di allora in una fetta strategicamente fondamentale del pubblico di addetti ai lavori e appassionati. Una dinamica riconosciuta e in qualche modo accettata prima di tutto dall’attuale management, che può apparire contraddittoria o addirittura ingiustificata solo ad un occhio disattento.

Sorbo Serpico (AV), la cantina di Feudi di San Gregorio

Sorbo Serpico (AV), la cantina di Feudi di San Gregorio

Quando ho iniziato ad occuparmi di vino più o meno “seriamente”, a cavallo del nuovo millennio, Feudi di San Gregorio era uno dei marchi più affermati del made in Italy. La famiglia Capaldo era già entrata in maniera forte nella proprietà dell’azienda, ma la direzione era affidata principalmente nelle mani dei fratelli Enzo, Mario e Luciano Ercolino, affiancati nella guida tecnica inizialmente da Luigi Moio e successivamente da Riccardo Cotarella. Con risultati straordinari dal punto di vista strettamente imprenditoriale: il colosso di Sorbo Serpico era continuamente citato come una delle poche realtà capaci di tenere insieme volumi di produzione importanti (oltre tremilioni di bottiglie) con elevata qualità percepita, penetrazione dei mercati nazionali ed internazionali con prezzi premium. Portare a cena da un amico una bottiglia di Cutizzi, Pietracalda, Campanaro, Piano di Montevergine, Serpico era quasi sempre garanzia di bella figura, a casa del “bevitore generico” come dell’esperto.

Un successo che andava ben oltre le faccende meramente vinicole e sembrava poter trasformare Sorbo Serpico in una vera e propria “capitale” dell’enogastronomia irpina e campana, grazie anche alla ristrutturazione della cantina, l’apertura del ristorante Marennà, l’intenzione di inserirsi nei flussi turistici regionali con speciali pacchetti di visite, le acquisizioni in Puglia e Basilicata e mille altri progetti in cantiere. Ma non tutti erano allineati rispetto a questa rappresentazione “trionfale”: se la critica “ufficiale”, compresa quella regionale, celebrava regolarmente i vini dei Feudi, in alcuni siti, blog e forum indipendenti se ne discuteva parallelamente con toni tutt’altro che entusiastici. Nello specifico si contestava un’impostazione tecnica eccessivamente “internazionale” per vini piuttosto sbilanciati su dolcezze, aromi fermentativi e sensazioni tostate, al punto da rendere molto sfumata, per non dire irriconoscibile, la loro aderenza varietale e territoriale. Rilievi e distanze che si acuirono ulteriormente quando l’azienda di Sorbo Serpico decise di proporre come vino di punta della propria gamma il Patrimo: era un merlot in purezza, varietà fino ad allora non autorizzata in provincia di Avellino e comunque estranea alla tradizione viticola locale. Si creò un vero e proprio “caso”, rilanciato soprattutto sulle pagine del sito Wine Report dal giornalista Franco Ziliani, che divenne un po’ il “simbolo” di un certo tipo di informazione, non propriamente tenera nei riguardi del management e delle produzioni di Feudi. Anche perché il Patrimo fece immediatamente man bassa di premi e riconoscimenti, conquistando addirittura il titolo di “Rosso dell’Anno” (con la 2000, seconda vendemmia prodotta) per la Guida Vini d’Italia di Gambero Rosso-Slow Food, coordinata da Daniele Cernilli e Gigi Piumatti, senza dubbio la più influente in quel periodo.

In senso orario, partendo da in alto a sinistra: Vincenzo Ercolino, Daniele Cernilli, Franco Ziliani

In senso orario, partendo da in alto a sinistra: Vincenzo Ercolino, Daniele Cernilli, Franco Ziliani

Proprio quello può essere considerato forse il punto più alto della luna di miele mediatica di Feudi, destinata negli anni successivi a rallentare decisamente, fino ad una vera e propria inversione di immagine, specialmente nella comunità di appassionati e operatori più “attivi” sulle varie piattaforme di informazione e di scambio. L’aura glamour che si accompagnava alle bottiglie scure firmate da Vignelli Assiociates * veniva progressivamente sostituita da un approccio assai più diffidente e disincantato. Indicare i vini di Feudi come preferiti equivaleva a passare molto facilmente come “pivellini” alle prime armi, almeno in una certa cerchia. O peggio ancora: come assaggiatori disattenti e superficiali, incapaci di riconoscere un modello espressivo per molti aspetti omologante. La critica istituzionale non ha mai completamente rinnegato le scelte precedenti, la collezione di Tre Bicchieri, Cinque Grappoli e Tre Stelle è proseguita, i punteggi sulle riviste internazionali non sono cambiati più di tanto come la notorietà del brand e la presenza sui mercati esteri. E’ però altrettanto vero che su molti altri canali lo spazio dedicato alla produzione di Feudi è stato fortemente ridimensionato, oltre che offuscato nella sua percezione cool. Il tutto mentre a Sorbo Serpico si consumava una lunga fase di transizione interna, inaugurata dall’uscita di scena dei fratelli Ercolino, proseguita con una serie di avvicendamenti nella direzione aziendale ed enologica, pervenuta ad un assetto stabile solo di recente.

Il nuovo organigramma vede impegnato in prima persona il giovane Antonio Capaldo (figlio del professor Pellegrino) come Presidente e il friulano (ma da oltre un decennio in Irpinia) Pierpaolo Sirch, amministratore delegato e direttore di produzione. E chiunque ha avuto modo di visitare l’azienda negli ultimi anni e di confrontarsi con l’attuale staff, sa bene quanto sia cambiata e stia cambiando la filosofia produttiva di Feudi di San Gregorio. Una sterzata che prende le mosse da una feroce autocritica a 360 gradi, come raramente mi era capitato di rilevare nella mia esperienza in questo mondo, che ancora adesso mi colpisce. E poco importa se è una riflessione totalmente “sincera” o almeno in parte “paracula”, passatemi il termine poco elegante: i fatti dicono che a Sorbo Serpico non c’è mai stata tanta coerenza tra comunicazione e attività reale, tra progetti annunciati e realizzati. E’ un dato di fatto che Feudi abbia notevolmente ampliato in questi anni il proprio parco vigne, oltre 300 ettari solo in Irpinia, e che proprio da qui sia ripartita nella rimodulazione invocata dalla nuova dirigenza. Feudi Studi *  è solo l’ultimo dei progetti di mappatura agronomica, varietale e territoriale che fanno capo ad un uomo di vigna come Pierpaolo Sirch. Dal suo tablet è possibile recuperare in tempo reale ogni tipo di informazione su ciascuna delle centinaia di parcelle seguite nei vari areali, senza contare il lavoro di affiancamento ai viticoltori da cui viene ancora acquistata una parte delle uve.

Antonio Capaldo, presidente di Feudi di San Gregorio

Antonio Capaldo, presidente di Feudi di San Gregorio

Percorsi di conoscenza e ricerca che poco inciderebbero ai fini del nostro ragionamento se la “nuova era” non si evidenziasse anche nei vini proposti da Feudi nelle ultime vendemmie. E invece proprio con bottiglie e bicchieri alla mano ci si rende conto della svolta radicale avvenuta a Sorbo Serpico, che dice più di tanti proclami. Per una volta tornano utili le tanto vituperate degustazioni alla cieca: negli “anni d’oro” era possibile riconoscere in pochi attimi i vini di Feudi all’interno di una batteria, non ci si poteva sbagliare i nessun modo. Specialmente con i bianchi, che si configuravano in maniera completamente diversa dal punto di vista organolettico rispetto a tante altre interpretazioni della stessa denominazione. Non solo: in alcune annate risultava particolarmente ostico anche distinguerli all’interno della medesima gamma aziendale, sia a livello di “base” che a livello di selezioni. Oggi non si corre il rischio di confondere una falanghina con un greco, un aglianico con un merlot quando si stappa una bottiglia targata Feudi.

Sembra paradossale doverlo sottolineare quasi come una “conquista”, ma per una buona fetta di appassionati e operatori questa rappresenta in qualche modo una notizia. Accolta nella maggior parte dei casi con grande diffidenza, per la serie ci siamo cascati una volta, non ci cascheremo una seconda. Dieci anni fa ci voleva un certo coraggio a parlare “male” dei vini di Feudi, adesso è quasi il contrario: ci si becca facilmente dello “sdoganatore”, “restauratore” o “difensore dello status quo” quando si prova a sottolineare il ritrovato valore territoriale. Ancora oggi l’espressione “feudiano” è utilizzata in tante chiacchierate, dal vivo o online, con un’accezione ben precisa: quella di un vino piuttosto sbilanciato sull’aromaticità e le dolcezze, magari ben confezionato, ma difficile da collocare in un certo contesto geografico. “La banana di Feudi”, a richiamare le intense e talvolta caricaturali sensazioni fermentative e tropicali di alcune uscite di inizio millennio, resiste come vero e proprio tormentone in determinati ambienti di enoamatori. Si evidenzia una forte componente pregiudiziale in questo tipo di reazione, ma non mi sento di dare torto a chi ha scelto di trascurare in questi anni i vini di Feudi di San Gregorio. Da semplice compratore probabilmente avrei fatto lo stesso e avrei riservato il mio tempo e i miei acquisti ad altre cose, senza tanti rimpianti. C’è però un livello giornalistico, che non può permettersi di rilanciare cliché dati per acquisiti una volta e per sempre. I vini di Feudi sono oggettivamente cambiati e chi si rifiuta anche solo di confrontarvisi per partito preso dal mio punto di vista non fa un buon servizio ai propri lettori. Al di là delle legittime preferenze, da irpino credo sia solo una good news se una grande azienda come quella della famiglia Capaldo abbia (ri)cominciato a portare in giro per il mondo bottiglie di fiano, greco, falanghina, aglianico degne di questo nome.

Pierpaolo Sirch, Amministratore Delegato di Feudi di San Gregorio

Pierpaolo Sirch, Amministratore Delegato di Feudi di San Gregorio

Quando si è testimoni di oscillazioni così forti nelle storie aziendali, ma anche nel loro racconto mediatico, si corre sempre il rischio di ridurre tutto a sintesi manichee poco utili. La vicenda di Feudi ha invece a che fare con tutta una serie di grigi, che possono ricondurre ad esiti diversi a seconda del punto di osservazione. Va innanzitutto detto, per amore di verità, che non tutti i vini dell’epoca aurea, o giù di lì, si sono rivelati alla prova del tempo così fuori registro come li si vuol far passare: alcune annate di Piano di Montevergine o Serpico di metà anni ’90, certi Campanaro (il bellissimo ’98, ad esempio), Pietracalda e Cutizzi (ancora in perfetta forma i ’99), perfino dei bianchi “base” di quel periodo hanno ancora cose interessanti da dire oggi, pur nella loro impostazione “innovativa”. Così come, ragionando in maniera laica, si possono eccome individuare dei limiti, quasi di segno opposto, in quelli proposti nelle ultime vendemmie, specialmente a partire dalla 2010. Per qualcuno si configurano come interpretazioni fin troppo sottili, crude, affilate, addirittura mancanti di quella piacevolezza che in altri periodi veniva rivendicata come cifra espressiva di riferimento; ed è una critica che ci può stare. Non per forza i migliori bianchi irpini possibili, insomma, ma senza dubbio lontani anni luce dagli stereotipi “industriali”. Vini che riescono addirittura a mimetizzarsi nelle orizzontali dedicate alle denominazioni, affianco a buona parte delle declinazioni considerate più “artigianali” e caratterizzate. Chi ha avuto modo di seguire in questi mesi il Pietracalda e il Cutizzi 2012 sa di cosa parlo, ma ancora di più stupisce l’impronta martellante e citrina del Greco “base” pari annata. L’impressione è che ci potrà essere un’ulteriore crescita nei prossimi anni in termini di complessità e naturalezza, anche grazie ai tempi commercialmente meno stringenti con cui verranno proposte le selezioni parcellari della linea Feudi Studi. Così come sarà maggiormente visibile di oggi il lavoro di restyling sui rossi, a partire da quelli a base aglianico, vitigno sul quale sono state investite tante risorse progettuali, anche nel Vulture a Basilisco. Tutto lascia pensare che ci sia una programmazione a lungo termine nella versione “reloaded” di Feudi e credo non sia consigliabile ignorarlo, per chi vuole raccontare in maniera completa il distretto irpino e meridionale.

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L'Autore

Paolo De Cristofaro

Paolo De Cristofaro

Irpino classe 1978, lavora a tempo pieno nel mondo del vino dal 2003, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione e il Master in Comunicazione e Giornalismo Enogastronomico di Gambero Rosso. Giornalista e autore televisivo, collabora per numerose guide, riviste e siti web, tra cui il blog Tipicamente, creato nel 2008 con Antonio Boco e Fabio Pracchia. Attualmente è il responsabile dei contenuti editoriali del progetto Campania Stories, nato da un’esperienza ultradecennale nell’organizzazione degli eventi di promozione dei vini irpini e campani con gli amici di sempre. Dal 2013 collabora con la rivista e il sito di Enogea, fondata da Alessandro Masnaghetti.
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