Francesco Falcone, detto Il Falco, classe ’76, nato a Gioia del Colle, dopo molto peregrinare oggi vive a Cervia, in Romagna. Storica firma della rivista Enogea * di Alessandro Masnaghetti, redattore della Guida ai vini de L’Espresso, vanta una lunga esperienza maturata su più fronti, non solo quello della critica. Oltre a essere un’abile penna, un raffinato critico e un degustatore preparato – è uno dei migliori nasi che io conosca – ha il pregio, raro, di essere amabile quanto prezioso quando si colloquia con lui di vini. Ho così approfittato di una sua visita recente in Campania per una chiacchierata sullo stato dell’arte enologico della nostra regione.
Talvolta per chi fa il nostro lavoro può sopraggiungere un po’ di stanchezza o noia. Non sempre i vini che assaggiamo toccano corde capaci di far vibrare le emozioni più profonde. Invece, nonostante la tua esperienza, continuamente in giro per l’Italia e l’Europa, venire in Campania ti mette sempre di buon umore. Perché?
Ti confido di amare particolarmente la Campania, da sempre, per motivi che solo in parte hanno a che fare col vino. Mi piace, ad esempio, il formicaio caotico ed esibizionista di Napoli, e più in generale mi sento a mio agio nelle stridenti asimmetrie di una regione tanto difficile, tanto complicata, quanto vicina alla mia idea di Sud. Ho visitato tutti i territori campani, ho conosciuto tante persone e ciò che conservo nella mia memoria va ben oltre l’immagine degradata che spesso passa attraverso le cronache. Da voi si baratta la vivibilità con la vivacità, prevale l’istinto sulla ragione e si respira il fascino dell’imprevedibilità: caratteristiche che per proprietà transitiva ritrovo nei vini migliori, oggi ben più numerosi di ieri.
Quali vini campani hai nella tua cantina? Quali vorresti avere di più e quali, invece, vorresti non avere più?
La mia esperienza è ancora troppo episodica per stilare una classifica di merito così perentoria, oltretutto per indole mi piace conservare un atteggiamento laico, anzi direi “liquido” nei confronti di ciò che annualmente vado ad analizzare: è possibile che un vino oggi a mio avviso poco interessante, che non comprerei, il prossimo anno possa sentirlo nelle mie corde. E non solo perché è cambiato lui, ma perché, in qualche modo, sono cambiato io. Ad ogni modo, oggi dietro ai vini Irpini (più bianchi che rossi, senza alcun dubbio) darei una chance alle Falanghina e ai Piedirosso dei Campi Flegrei: manca ancora una coralità di voci, ma i pochi interpreti che stanno risollevando le sorti di quel terroir, per anni a forte rischio di estinzione, stanno propiziando la riuscita di vini superbi, dalla personalità unica. E anche dal Vesuvio, dal Cilento, dal Sannio e dal Falerno si possono pescare bottiglie interessanti: è proprio questa pluralità di contesti a rendere la Campania una grande terra del vino, a mio avviso la più interessante del nostro Mezzogiorno.
Non solo assaggi, spesso e volentieri, i vini di questa regione, ma non perdi occasione quando hai modo e tempo per girarla e visitarla. Qual è il territorio e il vitigno di cui vorresti assaggiare più vini e su cui i produttori dovrebbero puntare e credere di più?
In parte ho già risposto: mi piacerebbe, per una felice legge del contrappasso, che la viticoltura dei Campi Flegrei rubasse oggi spazio all’edilizia che in passato l’ha pressoché sterminata, e che tanti uomini e tante donne napoletani coltivassero quelle splendide terrazze vulcaniche in modo sapiente, come probabilmente era uso fare mille anni fa. Qui sia la Falanghina che il Piedirosso possono offrire alcuni dei bianchi e dei rossi più eccitanti e gastronomici della regione: io mi auguro che in futuro vi siano tanti vignaioli all’altezza di Raffaele Moccia, Giuseppe Fortunato e Vincenzo Di Meo.
Mi dici tre vini che ti hanno particolarmente colpito di recente?
Sono tanti, ma se il gioco è quello di sceglierne solo tre, allora parteggio per l’Irpinia e ti dico che il Taurasi Riserva 2006 di Michele Perillo, il Greco di Tufo Tornante 2013 di Vadiaperti e il Fiano La Congregazione 2012 di Villa Diamante sono vini di assoluta caratura mondiale. A cui è impossibile resistere in degustazione e che funzionano meravigliosamente a tavola.
Un punto di forza e uno di debolezza del sistema vino campano visto nella sua interezza.
Il punto di forza, lo ripeto, è la coralità di voci e di terroir che la regione sa offrire all’appassionato: il vino campano nasce ovunque in un contesto climatico e pedomorfologico invidiabile, in cui il mare e le colline dialogano continuamente, e dove i terreni sedimentari si incrociano con suoli di origine vulcanica. Un cortocircuito virtuoso che dal mio punto di vista, che è soprattutto quello del degustatore, fa passare in secondo piano i suoi limiti, legati alla mancanza di risorse da investire, al prezzo delle uve troppo basso e a un’evidente carenza di interpreti ispirati in aree ben altrimenti ricche di potenzialità come il Beneventano e il Casertano.