Cantina del Barone - Campania Fiano Particella 928 2012

Particella 928, Cantina del Barone: la fascetta non fa il Fiano

Premessa. Cantina del Barone è una piccola azienda irpina, fondata nel 1998 da Antonio Sarno e guidata oggi dal figlio Luigi, giovane enologo che segue anche i Greco di Cantine dell’Angelo, a Tufo. Vigne e cantina sono ubicate a Cesinali, nel quadrante sud della denominazione Fiano di Avellino: gli ettari di proprietà sono circa due e mezzo, utilizzati per un “base” e un cru, il Particella 928 (prima annata: 2009), mezzo ettaro reimpiantato nel 2001 esposto a sud e collocato a 380 metri di altitudine, su terreni sciolti e scuri di natura vulcanica, con media presenza di scheletro.

I Fatti. L’annata 2012 del Particella 928 è commercializzata con la menzione Campania Fiano Igp-Igt e non con l’indicazione Fiano di Avellino Dop-Docg, come avvenuto per le prime tre uscite. Una scelta del produttore? Neanche per idea: il vino è stato dichiarato prima rivedibile e poi definitivamente bocciato (almeno in questa fase, come poi vedremo) dalla Commissione di Assaggio incaricata di certificare la corrispondenza tra le caratteristiche dei vini presentati e i parametri stabiliti dai disciplinari, per il riconoscimento della denominazione.

«Evidenti anomalie all’olfatto e al gusto», documenta il verbale redatto in occasione della sessione di degustazione dello scorso febbraio. La famiglia Sarno ha deciso di presentare ricorso al Ministero delle Politiche Agricole, dove la Commissione di Appello con responsabilità sulle denominazioni del centro-sud si riunirà per una nuova sessione di assaggio non appena ci saranno almeno 5 vini da riesaminare.

In attesa del pronunciamento definitivo, di cui vi daremo conto, Cantina del Barone aveva soltanto due opzioni da un punto di vista commerciale: aspettare, appunto, l’esito del ricorso oppure declassare il Fiano del 2012 vinificato a Campania Igp. Ed è così che è andata: i lotti imbottigliati già da settembre sono stati ri-etichettati e nelle enoteche e ristoranti troviamo oggi il Campania Fiano Paòne, che corrisponde al “vecchio” base, e il Campania Fiano Particella 928, che è esattamente il “solito” cru e bianco di punta dell’azienda.

Commento. Non è certo una notizia con cui aprire i telegiornali, siamo d’accordo, non è il fatto che colpisce l’immaginario collettivo del “grande pubblico”. Per appassionati ed addetti ai lavori, però, non dovrebbe essere esattamente una questione minore o marginale, e invece per il momento è passata per molti versi sotto silenzio, nonostante ne avesse già parlato Luciano Pignataro su Il Mattino quasi due mesi fa (link).

A ciascuno la responsabilità delle proprie parole ed azioni. La Commissione della Dop si è presa quella di identificare nel Particella 928 2012 di Cantina del Barone caratteri non conformi con quelli previsti dal disciplinare del Fiano di Avellino. E noi ci prendiamo quella di dire che una decisione del genere toglie ulteriore credibilità al già traballante sistema delle denominazioni italiane. A prescindere dalle personali preferenze e dal giudizio “critico” sul vino in questione, ci vuole un coraggio da leoni, mettiamola così, per affermare che i bianchi 2012 di Cantina del Barone non siano riconoscibili come Fiano irpini. Come si spiega allora una decisione del genere?

Facciamo un passo indietro. Chi ha avuto modo di assaggiare il Particella 928 della famiglia Sarno, sa bene che non si tratta, visivamente, olfattivamente e gustativamente, di un’interpretazione abituale del vitigno irpino. Alla base c’è un percorso tecnico dichiaratamente originale, che prevede la pressatura intera delle uve senza diraspatura, decantazione statica, travasi all’aria e fermentazione senza aggiunta di lieviti per quasi un mese, prima dell’affinamento sur lie in acciaio per 8 mesi e almeno altri 4 in bottiglia. Nessuna filtrazione.

Scelte di vigna e cantina da mettere in relazione anche con le premesse pedoclimatiche del terroir di Cesinali, che meriterebbe un approfondimento ma ruberebbe troppo spazio al punto centrale del ragionamento. Una lettura che ha suscitato fin dalle prime uscite grande attenzione in una certa cerchia di critici, operatori e appassionati: il Fiano di Luigi Sarno è stato riconosciuto da tanti come parte integrante di quel virtuoso gruppo di vigneron e aziende capaci di declinare a livelli di eccellenza l’ampio campionario di espressioni territoriali e stilistiche della denominazione.

Luigi Sarno, vignaiolo ed enologo

Luigi Sarno, vignaiolo ed enologo

Punteggi importanti su diverse guide e winemagazine, cartacei e digitali, i primi premi, entusiastici racconti e recensioni su blog e social network, in questi ultimi anni il Particella 928 di Cantina del Barone è entrato di prepotenza nella “nazionale” di riferimento del fiano irpino, come detto a prescindere dalle singole gerarchie. Letteralmente, mi viene da giocare, ricordando che il millesimo 2011 ha trionfato nel “Campionato Italiano del Fiano”, raccontato qualche mese fa dal sito Spaghetti Junction (link). Ma, battute a parte, è con la versione 2012 – quella declassata – che Luigi Sarno sembra aver spiccato definitivamente il volo: nell’ultima edizione di Campania Stories I Vini Bianchi è stato senza dubbio uno dei fiano irpini più citati e consigliati nei vari report realizzati dai giornalisti nazionali ed internazionali presenti alla rassegna.

Una sottolineatura che avevo trovato in larga parte condivisibile e confortante, sotto diversi punti di vista. A differenza di altri, da parte mia non era scattato immediatamente il feeling con il Particella 928, nelle prime uscite. O meglio: mi era capitato di penalizzare decisamente il 2009 e il 2010 in degustazione tecnica coperta, insieme ad altri amici e colleghi, trovandomi ad apprezzarlo molto di più nei mesi successivi, specialmente quando c’era l’occasione di seguirlo a tavola. Pur riconoscendogli in pieno personalità stilistica e territoriale, non mi convinceva del tutto un quadro aromatico troppo impostato fin da subito su timbriche terziarie e fenoliche, su quella frutta secca che di solito segnala una precoce evoluzione del fiano, ma soprattutto su note “birrose” riconducibili alla fermentazione spontanea. Già nelle versioni più “controverse”, però, mi colpiva molto la sua capacità di incrociare nel sorso forza sapida e leggerezza di beva, ampliando la sua complessità affumicata con suggestioni quasi “orientali”, di spezie e balsami.

I ripetuti assaggi del 2012 mi avevano ogni volta ispirato e rafforzato un semplice pensiero: la quadratura del cerchio, l’ulteriore step di un percorso in continuo crescendo, un Particella 928 capace di mettere d’accordo sensibilità molto diverse. E come ricordavo, infatti, avevano espresso il loro entusiasmo non solo i colleghi più vicini ad un’estetica “natural”, passatemi la decisa forzatura, ma anche altri solitamente molto attenti di solito alla confezione, ad una “grammatica” tecnica più diffusa e consolidata. Non certo lo stereotipo del fiano tondo e fruttato né un bianco da poter consigliare a chiunque senza prima spiegarlo, ma un’interpretazione ben al di qua delle bizzarrie aromatiche e delle impuntature fenolico-ossidative che spesso troviamo in certi bianchi “artigianali” (ripassatemi la forzatura) e che una certa ortodossia enologica potrebbe indicare come “difetto”. Senza inutili giri di parole, per me è di gran lunga il miglior Particella 928 finora uscito dalla cantina di Cesinali, un fiano che per quanto mi riguarda non mancherebbe mai in un’orizzontale didattica dell’annata. Non necessariamente un modello da seguire, non per forza il “migliore” – ammesso che queste definizioni abbiano ancora un senso – né una bottiglia che deve per forza piacere a tutti, ma sicuramente un 2012 da tenere a portata di mano per spiegare che “vendemmia calda” in Irpinia significa qualcosa di leggermente diverso rispetto ad altre zone.

Eppure per la Commissione di approvazione della dop non è così, quel vino non risponde ai parametri di correttezza tecnica o tipicità. Ammettiamo per un momento che abbiano ragione i suoi membri, che ci sia stata una sorta di grande ipnosi collettiva, che l’assaggiatore di Montefredane e quello di New York si siano trovati ad apprezzare il cru di casa Sarno per inesperienza o incapacità, perdipiù sottovalutando le “vere” eccellenze della denominazione. Anzi, mettiamoci il carico da undici e ipotizziamo che i riscontri di critica e pubblico siano dovuti in una certa misura ad una voglia di originalità e novità ad ogni costo, di quelle che ogni tanto sfuggono di mano e portano ad indicare come riferimento delle letture evidentemente troppo “estreme”. E’ successo, succede, ma mi sento proprio di dire che non sia questo il caso. A maggior ragione se parliamo del Particella 928 2012, che è il meno “macerativo”, ossidativo e “birroso” fra quelli usciti finora: se 2009 e 2010 sono stati autorizzati alla commercializzazione con la Docg Fiano di Avellino, è a dir poco incoerente, incomprensibile, insensato che il 2012 non possa.

Da giorni mi sto sforzando in tutti i modi di capire le ragioni di questa scelta, laicamente, e mi sono tornate in mente una lunga serie di discussioni sul tema “grammatica enologica” e dintorni, molte delle quali affrontate con amici e colleghi che state leggendo sulle pagine di Campania Stories e che spero vorranno condividere la loro opinione sui fatti in questione. Abbiamo più volte ragionato, non riuscendo sempre a raggiungere una posizione comune, sul filo spesso labile che può conciliare la creatività spiazzante di un approccio “natural-artigianale” (ri-ripassatemi la forzatura, altrimenti bisognerebbe aprire troppe parentesi) con le chance di restare all’interno di un certo range espressivo, tanto più forte e vincolante quanto una denominazione ha punti fermi codificati e stratificati, anche storicamente, sotto questo aspetto. Sono uno di quelli, per esempio, che considera certe sensazioni riconducibili alla fermentazione spontanea (e magari ad un lievito sofferente), non meno omologanti di quelle che possono manifestarsi in vini inoculati con lieviti aromatici. Oppure certe prepotenze ossidative o volatili, riduttive o fenoliche di bianchi macerati con le bucce, vini non chiarificati o filtrati, altri lavorati senza aggiunta di di SO², dove le scelte “non interventiste” possono determinare una dispersione del potenziale di riconoscibilità varietale e territoriale.

Tornando al nostro Particella 928, un appunto di questo tipo poteva avere anche senso in millesimi precedenti, che avevano sicuramente un’impostazione più “freak”, ma ancora una volta è un’apertura di credito che non regge allargando l’analisi all’intero scenario produttivo del Fiano di Avellino di questi vent’anni. Ammesso che le sensazioni “lievitose” e “pungenti” del Particella 928 non rientrino nel profilo “classico”, vorrei che qualcuno mi spiegasse per quale motivo invece dovrebbero appartenervi quegli aromi pesantemente fermentativi e tropicali che incontriamo in tanti Fiano di Avellino con la fascetta, che alla cieca un appassionato potrebbe immaginare di qualsiasi vitigno generico di qualsiasi territorio del mondo. E se non è ammissibile la tempra asciutta, tannica, austera, per qualcuno fin troppo rustica e scalciante, dei Fiano di Cantina del Barone, perché dovrebbero invece andare bene quelli – e ce ne sono ancora – segnati da decise abboccature, appiccicosi e slavati? E per pura carità di patria preferisco sorvolare su tutta una serie di vini che, soprattutto in passato, non hanno avuto alcun problema nel superare le commissioni di controllo nonostante, bottiglie alla mano, fosse più che legittimo per tanti assaggiatori dubitare della conformità sia varietale che territoriale.

Severità quanto meno ad intermittenza, verrebbe insomma da pensare, anche alla luce di un disciplinare che sugli aspetti organolettici non sembra fissare paletti particolarmente ostici e vincolanti. Come recita l’articolo 6, il vino a Denominazione di Origine Controllata e Garantita “Fiano di Avellino” all’atto dell’immissione al consumo deve rispondere alle seguenti caratteristiche:

“Fiano di Avellino” bianco
Colore: giallo paglierino più o meno intenso
Odore: gradevole, intenso, fine, caratteristico
Sapore: fresco, armonico

Seguono le specifiche analitiche, sulle quali non è stato mosso alcun addebito al Particella 928 di Cantina del Barone.

Cantina del Barone - Campania Fiano Paone 2012

Conclusioni

Da persona intelligente e riservata qual è, oltre che talentuosa, Luigi Sarno non ha voluto in questi mesi enfatizzare l’accaduto, evitando pose vittimistiche e dribblando tentazioni “mediatiche”. Non gli sarebbero mancate ragioni e argomenti, ma nonostante la comprensibile amarezza ha preferito guardare avanti e continuare a lavorare, con impegno e determinazione come ha sempre fatto. Se lo può in qualche modo permettere, perché la sua è una piccola cantina a gestione familiare e per molti versi ha la possibilità di conoscere e parlare con ciascuno dei suoi clienti, senza ripercussioni sensibili sul piano commerciale. Perché chi ha avuto modo di assaggiare, apprezzare e comprare i Fiano di Cantina del Barone, sa perfettamente l’idea aziendale e stilistica che c’è dietro e non cambia di certo le proprie valutazioni in base all’indicazione riportata sull’etichetta. Non una consolazione da poco, indubbiamente, ma restano comunque aperte una serie di questioni su cui è opportuno e forse necessario continuare a dibattere, a prescindere dal caso specifico.

1) Come detto, la famiglia Sarno non avrà presumibilmente danni significativi a livello commerciale da questo declassamento e le poche migliaia di bottiglie prodotte saranno vendute tutte prima del tempo allo stesso prezzo di sempre. Ma cosa sarebbe accaduto se di mezzo ci fossero stati volumi non proprio confidenziali come in questo caso? E come avrebbe potuto l’azienda fare fronte alla bocciatura nel caso in cui avesse programmato di partecipare a qualche tender da monopolio (per esempio in Scandinavia o Canada) o di proporsi a qualche importatore che cerca e richiede espressamente Fiano di Avellino Docg?

2) La Commissione della dop si è presa una bella responsabilità con la sua decisione, ma l’impressione è che non tutti coloro che ne sono a conoscenza siano esattamente “scontenti”. Il fatto che non ci sia stata una presa di posizione “pubblica” in termini di sostegno e solidarietà da parte di altri vigneron e tecnici, irpini e non solo, voglio metterlo in relazione con la diffusione limitata della notizia e il desiderio di Luigi di non alimentare polemiche. Ma è comunque il segnale, nel migliore dei casi, di una certa sottovalutazione delle conseguenze: quella della commissione è una scelta che dovrebbe in qualche modo mobilitare e preoccupare tutti i produttori virtuosi, perché se il sistema è questo, prima o poi può capitare a loro di vedersi “respinto” un proprio vino che si discosti anche solo parzialmente dallo schema espressivo prestabilito a monte. In tempi in cui il carattere, la personalizzazione e quasi l’unicità dell’offerta sono valori sempre più strategici per chi fa attività di impresa, forse non è esattamente una buona notizia per nessuno il declassamento di un vino come il Particella 928.

3) Non è la prima volta, e sicuramente non sarà l’ultima, che un vino di una cantina conosciuta ed apprezzata, almeno in un certo ambito, venga respinto dalla commissione per l’attribuzione della Dop. Ci sono stati casi eclatanti in diversi distretti prestigiosi (Jesi, Montalcino, Langa, Chianti Classico, tanto per elencare i primi che vengono in mente), ma è una faccenda per molti versi inedita nel comprensorio irpino, almeno per quanto riguarda la sua Docg bianca più estesa. Episodi come questi rischiano di fornire nuovi argomenti al malumore che sempre di più i produttori manifestano sulle difficoltà legate alla burocrazia, i controlli, le procedure a cui bisogna attenersi quando si opera all’interno di una denominazione. Non sono pochi i viticoltori, anche tra i più talentuosi e sensibili rispetto alle questioni di tipicità e territorialità, a sostenere che prima o poi saranno costretti ad uscire dalle Doc e ad imbottigliare i propri vini con menzioni generiche. Il più delle volte sono sfoghi estemporanei, credo, ma al netto delle arrabbiature è evidente come uno sviluppo di questo tipo sia più che plausibile.

E sappiamo bene cosa significa, basti pensare al Chianti Classico e ai Supertuscan, quando i migliori vini di una zona rinunciano a segnalare con chiarezza la propria origine e il proprio legame con un determinato territorio. A maggior ragione se parliamo di Fiano di Avellino che, come sottolineato in un recente post (link), avrebbe bisogno di rafforzarsi ulteriormente proprio da questo punto di vista, proponendo almeno una macrodivisione dell’areale in base all’estrema eterogeneità delle condizioni pedoclimatiche. Sarebbe un disastro, sotto ogni piano di analisi, se Dop strategiche come queste cominciassero a perdere pezzi.

Commerciale, perché si diluirebbe di molto il valore da “terroir di elezione” per il vitigno che buyer e appassionati di tutto il mondo non possono fare a meno al momento di riconoscere al distretto irpino.

Di filiera, perché ci sarebbero sicuramente ulteriori ripercussioni sul prezzo delle uve e verrebbe incoraggiata la penetrazione di varietà e materie prime da altri distretti, che possono magari contare su condizioni produttive più vantaggiose.

Socio-culturale, perché come dovrebbero insegnarci i francesi, le denominazioni sono prima di tutto un bene collettivo, da tutelare a prescindere dagli interessi particolari o dai volumi venduti. Solo chi non ha modo o voglia di viaggiare tra le campagne transalpine può ignorare il ritardo quasi abissale che la vitivinicoltura italica ha accumulato nell’arco di secoli su questo fronte. Ma, mentre nelle zone più consolidate sui mercati il brand territoriale riesce spesso a suggerire comunque appeal e attenzione, un macrodistretto in larghissima parte “giovane” ed emergente come quello campano non può assolutamente permettersi passi falsi in fasi delicate come queste.

Ecco perché, allora, questa non è soltanto una faccenda di fascette e dettagli burocratici, scartoffie e minuzie da enomaniaci. Forse vale la pena di confrontarsi seriamente insieme, almeno su una parte delle implicazioni che abbiamo provato a delineare. Perché probabilmente è ragionevole concludere che la sigla non fa automaticamente il fiano buono, ma è altrettanto vero che il fiano buono ha bisogno di una casa sicura con regole certe per prepararsi ad accogliere chi lo vuole scoprire ed amare a lungo, nel tempo e nello spazio.

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L'Autore

Paolo De Cristofaro

Paolo De Cristofaro

Irpino classe 1978, lavora a tempo pieno nel mondo del vino dal 2003, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione e il Master in Comunicazione e Giornalismo Enogastronomico di Gambero Rosso. Giornalista e autore televisivo, collabora per numerose guide, riviste e siti web, tra cui il blog Tipicamente, creato nel 2008 con Antonio Boco e Fabio Pracchia. Attualmente è il responsabile dei contenuti editoriali del progetto Campania Stories, nato da un’esperienza ultradecennale nell’organizzazione degli eventi di promozione dei vini irpini e campani con gli amici di sempre. Dal 2013 collabora con la rivista e il sito di Enogea, fondata da Alessandro Masnaghetti.
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